lunedì 13 gennaio 2014

Al di là del Job act

Bisogna dare atto al dibattito intorno al Job act di Renzi di aver evidenziato le differenze che, nell'epoca del pensiero unico neoliberista, esistono ancora tra destra e sinistra. Ieri Alfano, contestando le proposte di Renzi come 'idee del 900', ha esposto la versione di destra del lavoro: abolizione dell'art.18 e del contratto nazionale, salari legati produttività, incentivi alle aziende invece di sussidi alla disoccupazione. In pratica, darwinismo sociale allo stato puro.
La proposta renziana è nota, ispirata ai principi della flexsecurity diffusi in Italia da Ichino ed economisti alla moda come Tito Boeri: contratto unico a tutele crescenti (articolo 18 e contribuzione piena solo dopo tre anni), sussidi di disoccupazione subordinati alla frequenza di corsi di aggiornamento professionale, cogestione aziendale attraverso la nomina di rappresentanti sindacali nei cda; un modello che ricorda da vicino quello tedesco.
In tutto questo discorso, se si può capire l'entusiasmo dell'entourage renziano, è più difficile comprendere - a meno di non voler essere malevoli - l'interesse del sindacato più radicale (almeno sulla carta) e in particolare di Landini e della Fiom. 
Il Job act risponde alle esigenze della sinistra neoliberale di facilitare le condizioni di vita del lavoratore nella giungla economica contemporanea, ma nulla di più. Non intacca in alcun modo il principio della delocalizzazione produttiva, vera spada di Damocle dei lavoratori; non contempla provvedimenti come il reddito di cittadinanza, che potrebbero trasformare la provvisorietà dell'impiego in una possibilità, e non nella precarietà più bieca; al limite, con la cogestione sindacale, si trasformerebbero le associazioni di lavoratori - similmente a quanto avviene in Germania - ancora di più in cinghie di trasmissione del governo. 
Ma più di tutto c'è un punto che merita di essere messo in evidenza, anche se si potrebbe applicare a tutta la politica sindacale dal dopoguerra a oggi. Malgrado qualche timida proposta della Fiom in passato - subito smentita da episodi come la difesa a oltranza dell'Ilva di Taranto - alla ricerca della 'crescita perduta' e degli 'invistementi per l'innovazione', il sindacato rinuncia a qualsiasi ipotesi di ridefinizione della politica industriale.  E questo significa rinunciare al futuro, a qualsiasi visione alternativa, pensando unicamente a vaghe ipotesi di uscita dalla crisi per tornare magicamente a 'quando si stava meglio'. Le riflessioni sul Job act rappresentano quindi l'ultima chiamata per il sindacato per capire se, malgrado tutto, può ancora rappresentare, se non proprio uno strumento di rinnovamento sociale, una qualche forma di contestazione a un sistema che la società rischia di affossarla per sempre, anche se tra sorrisi e battute.

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