Pubblicato su Decrescita Felice Social Network l'8 maggio 2020
Roberto Burioni e il Patto per la scienza
L’ascesa di un influencer
Roberto Burioni merita un discorso a sé stante perché ha inaugurato
un approccio che lo distingue radicalmente da qualsiasi altro scienziato
che, come lui, ha fatto il suo ingresso nell’arena mediatica e in
particolare sui social network.
Non so se si avvalga di spin doctor e consulenti della comunicazione,
di sicuro per emergere è ricorso a strategie già ampiamente sfruttate
da vari influencer per assurgere a Webstar, in particolare:
- darsi una connotazione fortemente ‘controversa’, facendosi amare od
odiare senza mezze misure, utilizzando toni provocatori anche quando
obiettivamente non necessario;
- usare gli hater come mezzo promozionale, rinfocolando costantemente la loro antipatia nei suoi confronti;
- blastare senza pietà gli avversari dialettici, attraverso
brevi scaramucce dove lui deve avere l’ultima parola e le sue
controparti uscirne totalmente annichilite.
Questi atteggiamenti sono stato sfoderati non solo contro i
famigerati no-vax, ma persino ai danni di alcuni colleghi; ad esempio,
in disaccordo con Maria Rita Gismondo (direttrice di Macrobiologia
Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze dell’Ospedale Sacco di
Milano) sulla gravità dell’epidemia italiana di Covid-19, non ha esitato
a definirla spregiativamente su Twitter “la signora del Sacco”. Per non
parlare poi di certi ‘pensieri ad alta voce’ su tematiche estranee alla
medicina.
Il successo personale di Burioni come influencer è innegabile: mentre
scrivo, vanta quasi settecentomila follower su Facebook e più di
novemila su Instagram, inoltre il suo canale YouTube è vicino ai
ventottomila iscritti; è spesso ospite di seguitissimi programmi
televisivi e i giornali abbondano di sue interviste. Per tante persone,
nel bene e nel male, la sua figura incarna LA medicina per antonomasia,
se non addirittura LA scienza.
Ma che dire dell’efficacia come divulgatore scientifico? Secondo un sondaggio della Observa,
dal 2015 al 2017 è sensibilmente aumentata la quota di italiani
favorevoli a un obbligo vaccinale parziale o totale; a questo dato,
però, fa da contraltare una ricerca di Eurobarometro del 2019,
secondo cui il 46% teme effetti collaterali gravi, il 34% di essere
contagiato dalla malattia che si vorrebbe prevenire, il 32% di rischiare
un indebolimento del sistema immunitario.
Ma l’aspetto evidenziato dall’Eurobarometro più interessante in
questa sede è che Internet e i social network rappresentano una fonte di
informazione affidabile sui vaccini per un misero 4% degli
intervistati, mentre la stragrande maggioranza confida in medici di
base, pediatri e autorità sanitarie. Questi dati ridimensionerebbero
pertanto il peso dell’operato di Burioni (e altri influencer)
nell’orientare le scelte degli italiani, cosa che del resto non dovrebbe
sorprendere.
Non serve una laurea in scienze della comunicazione per sapere che il
suo armamentario dialettico a base di derisione, invettiva e
provocazione è ottimo per infiammare uno scontro, quando cioé persuadere
l’interlocutore è ritenuto del tutto secondario rispetto a stroncarlo.
Quanti diffidenti nelle vaccinazioni e nella scienza ‘ufficiale’ in
genere si saranno ricreduti semplicemente con degli articoli di ricerca
postati su Facebook, magari conditi da qualche contumelia?
Sicuramente, con la sua condotta spregiudicata ha focalizzato
l’attenzione generale su di un tema prima secondario nell’agenda
mediatica, ma la sensazione è che abbia per lo più intercettato un
segmento di pubblico già allineato sulle sue posizioni da prima che
diventasse una celebrità. Senza contare che, da quando la sua figura è
emersa con prepotenza, svariati soggetti hanno ottenuto visibilità
proponendosi dichiaratamente come anti-Burioni, per sedurne i numerosi
hater.
Di conseguenza, con il virologo del San Raffaele si ripresentano gli
stessi problemi già affrontati con il debunking, forse moltiplicati per
mille, con il risultato di aver ulteriormente radicalizzato conflitti
già esistenti: vista la ribalta conquistata, che tutto ciò rientrasse
fin dall’inizio nei suoi obiettivi?
La congiura dei somari
‘Ma Burioni ci è o ci fa?’, si chiedono in tanti perplessi dai suoi
comportamenti on line. Il sospetto che, quando agisce sui social, un po’
‘ci faccia’ è confermato dal libro La congiura dei somari
dove, pur ribadendo i medesimi concetti espressi sul Web, ricorre a toni
più pacati ed equilibrati, malgrado alcune idiosincrasie traspariscano
già a partire dal titolo.
I ‘somari’ descritti nell’opera, ossia persone senza la minimima
preparazione che consultando qualche sito Web si sentono dei
cattedratici, esistono e sono purtroppo numerosi (vittime del cosiddetto
Effetto Dunning-Kruger);
ma è del tutto fuorviante far credere che stiano ordendo qualsivoglia
‘congiura’ (ironia della sorte, il fact checker si scopre all’improvviso
complottista!).
I gruppi no-vax (ovviamente i somari per eccellenza, secondo
l’autore) rappresentano minoranze molto attive sul Web, capaci qualche
volta di strappare spazi su TV e giornali nonché di attirare
l’attenzione di politici in cerca di voti; ma la loro influenza
complessiva è minima, soprattutto non c’è alcun indizio che condizionino
la produzione scientifica. Per di più, se davvero queste persone
meritassero l’accusa di ‘congiura’ solo per l’attivismo digitale, che
cosa si dovrebbe insinuare a proposito dell’industria farmaceutica che
solo nel 2018 negli USA ha speso 27,5 milioni di dollari in attività di lobbysmo?
Burioni ha la brutta tendenza a dirottare in toto sui somari da
tastiera o su isolate ‘mele marce’ della medicina responsabilità che
invece gravano pesantemente anche su parte del mondo scientifico. Nel
libro, ad esempio, imputa la sciagurata decisione del presidente
sudafricano Mbeki di sostenere le teorie eterodosse che negano il legame
tra HIV e AIDS alla fiducia da questi riposta in non meglio specificati
‘scienziati alternativi’, omettendo invece che il suo principale
fiancheggiatore fu Peter Duesberg,
non un ciarlatano del Web bensì un pioniere nella ricerca dei
retrovirus, i cui studi gli sono valsi nel 1986 l’elezione alla
prestigiosa National Accademy Of Sciences; l’introduzione del suo libro Aids. Un virus inventato
è stata curata dal premio Nobel per la chimica Kary Mullis. (Va
riconosciuto a Burioni di aver ricostruito la vicenda sudafricana in
modo più circostanziato e corretto nella successiva opera Balle mortali)
Il pamphlet, del resto, presenta una palese forzatura fin dal
primissimo capoverso, inaugurato dalla frase divenuta oramai un vero e
proprio aforisma:
La scienza non è democratica. La velocità della luce non si decide
per alzata di mano, come ha detto Piero Angela, al quale tanto dobbiamo.
Una palla di ferro gettata in mare andrebbe invariabilmente a fondo,
anche se un referendum popolare stabilisse che il peso specifico del
ferro è inferiore a quello dell’acqua.
A parte la concezione distorta di democrazia ridotta al mero
strumento elettorale, chi avrebbe preteso di trasformare l’Accademia in
una gigantesca assemblea di condominio? Neppure il no-vax più indefesso
ha mai chiesto di interrogare gli elettori sulla salubrità dei vaccini,
al massimo è stato richiesto di ampliare il ventaglio di fonti da
consultare per esprimere un giudizio di merito ed eventualmente, quello
sì, di abolire per via referendaria una legge sulla somministrazione
obbligatoria.
In secondo luogo, la misurazione della velocità della luce e del peso
specifico dell’acqua non hanno alcuna ripercussione pratica sulla
società, a differenza del giudizio sulla sicurezza di un vaccino, che
oltre a essere un farmaco con effetti sull’organismo è anche un prodotto
commerciale su cui qualcuno vanta diritti di proprietà intellettuale e
riscuote profitti. Se è pienamente giustificato che la politica affidi
agli esperti competenti, nelle modalità opportune, di giudicare la
portata degli eventuali rischi da vaccino, il varo di un trattamento
sanitario obbligatorio richiede invece una discussione allargata a tutta
l’opinione pubblica, anche perché entrano in gioco motivazioni di
carattere extra-sanitario.
Burioni, per nulla stupido, è consapevole che in realtà non esiste
alcuna congiura, bensì un clima di sfiducia generalizzato dove
l’elemento fondamentale è rassicurare il pubblico sulla buona fede di
medici e ricercatori. In La congiura dei somari pensa di
riuscirci alla maniera di Blaise Pascal con la sua famosa scommessa
sull’esistenza di Dio (risulta più conveniente crederci che no):
Insomma, la scienza è imperfetta e fatta di uomini ancora più
imperfetti, e le verità che ci offre sono sempre parziali e mai troppo
sicure. Però vale la pena di fidarsi, perché l’alternativa è costituita
dal buio, dall’oscurantismo e dalla morte.
Il medesimo concetto, leggermente più elaborato, si ritrova in Balle mortali:
La scienza, pur con i suoi mille difetti e con i suoi mille errori, è
quello che ci ha fatto progredire nel mondo. Certo, gli scienziati sono
uomini e alcuni di loro sono disonesti e hanno compiuto azioni
scellerate, e non sempre il sistema riesce a limitarli. Ma alla lunga,
per fortuna, la scienza si corregge sempre e, così come Winston
Churchill diceva che la democrazia è la peggior forma di governo, a
parte tutte quelle che si sono sperimentate finora, lo stesso possiamo
dire della scienza: è la peggior forma di conoscenza, a parte tutte le
altre.
In entrambi i libri, lo scopo dichiarato di Burioni è difendere la
scienza intesa come entità astratta e quasi eterea, imputando ogni
problema che la riguardi a ignoranza e malvagità umana – somari,
ciarlatani, ricercatori disonesti. In tal senso, trattasi di una
strategia decisamente azzeccata, perché ridurre tutto a questioni di
carattere morale gli permette di sorvolare su tante criticità interne
alla scienza stessa che ne minano l’autorevolezza.
La disputa che lo ha visto coinvolto su Twitter contro il
‘pluricandidato al Nobel’ Giulio Tarro dimostra la ritrosia ad
affrontare certi argomenti scabrosi, persino quando potrebbero volgersi a
suo vantaggio contro il nemico di turno:
Invece di fare cabaret, Burioni infatti avrebbe potuto blastare molto
facilmente Tarro, infliggendo probabilmente un colpo mortale alla sua
crescente popolarità: gli sarebbe bastato passare al setaccio il
curriculum comodamente consultabile sul suo sito Web. Sarebbero saltate
fuori cose non propriamente onorevoli per un ricercatore di presunta
fama internazionale, quali la collaborazione con i gruppi che fanno capo
al famigerato Dr. Srinubabu Gedela (solito organizzare convegni farsa
che si spacciano per eventi scientifici), pubblicazioni su ‘riviste
predatorie’, il dichiararsi membro del corpo accademico di alcune pseudo
università statunitensi che vendono diplomi e onorificenze, insieme ad
altre evidenze totalmente incompatibili con ambizioni da Nobel. (Qui per maggiori dettagli)
Tuttavia, così facendo avrebbe dovuto ammettere che la scienza è gravata dall’editoria predatoria
e altri problemi a livello sistemico (quindi non imputabili alle colpe
dei singoli) decisamente preoccupanti. Da qui, sarebbe emerso che il
vero dilemma non è dimostrare come il peggior scienziato sia preferibile
al ‘miglior’ ciarlatano, bensì capire se il mondo della ricerca possa
funzionare meglio di quanto non faccia ora, in particolare per quanto
attiene al cuore della sua attività, ossia i processi di formazione
della conoscenza scientifica.
Ad esempio, Ugo Bardi in un post su Cassandra Legacy provocatoriamente intitolato ‘So, You Think Science Will Save the World? Are You Sure?‘, prendendo spunto da un paper di Jonathan P Tennant,
ha messo in luce gravi problematiche che caratterizzano la revisione
paritaria (peer review), ossia il principio fondamentale di validazione
scientifica. In sintesi:
- una rivista scientifica non può di fatto rimediare a eventuali
errori presenti in articoli pubblicati, anche se marchiani (una volta
andati in stampa, diventano ‘scienza ufficialmente approvata’);
- i revisori spesso appartengono alla ‘vecchia guardia’ e sono molto
ostili verso le novità, specialmente quando faticano a capirle;
- l’esigenza di ottenere l’approvazione dei revisori, unitamente alla
necessità di citazioni per progredire nella carriera, induce il giovane
ricercatore ad assumere atteggiamenti conformisti;
- non esistono standard condivisi per le revisioni, vige il quasi più totale arbitrio.
(A chi volesse approfondire la tematica consiglio un altro ottimo contributo di Marco Viola su ROARS)
Se non intervengono importanti azioni di riforma, la revisione
paritaria, invece di premiare la qualità, finirà per cronicizzare una
tendenza degli scienziati già individuata da Thomas Kuhn negli anni
Sessanta quando scrisse La struttura delle rivoluzioni scientifiche: quella di consolidare il paradigma di conoscenza esistente ostacolando le istanze di rinnovamento.
Patto trasversale per la scienza
Nel gennaio del 2019, Burioni si è fatto promotore del ‘Patto
trasversale per la scienza’, manifesto programmatico in cinque punti:
1) Tutte le forze politiche italiane s’impegnano a sostenere la
Scienza come valore universale di progresso dell’umanità, che non ha
alcun colore politico, e che ha lo scopo di aumentare la conoscenza
umana e migliorare la qualità di vita dei nostri simili.
2) Nessuna forza politica italiana si presta a sostenere o tollerare
in alcun modo forme di pseudoscienza e/o di pseudomedicina che mettono a
repentaglio la salute pubblica come il negazionismo dell’AIDS,
l’anti-vaccinismo, le terapie non basate sulle prove scientifiche, ecc…
3) Tutte le forze politiche italiane s’impegnano a governare e
legiferare in modo tale da fermare l’operato di quegli pseudoscienziati,
che, con affermazioni non-dimostrate e allarmiste, creano paure
ingiustificate tra la popolazione nei confronti di presidi terapeutici
validati dall’evidenza scientifica e medica.
4) Tutte le forze politiche italiane s’impegnano a implementare
programmi capillari d’informazione sulla Scienza per la popolazione, a
partire dalla scuola dell’obbligo, e coinvolgendo media, divulgatori,
comunicatori, e ogni categoria di professionisti della ricerca e della
sanità.
5) Tutte le forze politiche italiane s’impegnano affinché si
assicurino alla Scienza adeguati finanziamenti pubblici, a partire da un
immediato raddoppio dei fondi ministeriali per la ricerca biomedica di
base.
Non serve sottoporre il testo a un particolare decostruzionismo per
coglierne alcune peculiarità, in primis che ‘Scienza’ è per lo più usato
quale sinonimo di ‘medicina’, come si evince smaccatamente dal
riferimento ai presidi sanitari e dal partigianissimo punto 5.
Deformazione professionale? C’è da sperarlo, altrimenti, se applicate
indistintamente a tutti i campi del sapere, le asserzioni del Patto
risulterebbero alquanto discutibili.
Innanzitutto, perché la pseudo-scienza, per definizione, deve
presentare un carattere ‘allarmista’? ll negazionismo climatico non ha
forse una funzione rassicurante, sostenendo che gli sconvolgimenti
naturali non siano di origine antropica e quindi negando qualsiasi
necessità di cambiare il nostro modello di sviluppo, a partire dall’uso
dei combustibili fossili? E’ curioso, in effetti, che in un manifesto
scientifico del 2019 non compaia alcun riferimento all’ecologia; anche
se Burioni, si sa, non è un amante della Natura.
Al di là delle legittime preferenze personali, il tono generale del
documento è che la funzione della Scienza sia quella di tranquillizzare i
cittadini in contrapposizione alla ‘pseudo-scienza’ catastrofista: non
proprio il contesto ideale per accogliere le Cassandre del malaugurio
che si dedicano allo studio della biosfera.
Altro elemento di perplessità sono i ripetuti appelli a ‘tutte le
forze politiche’ affinché assumano impegni solenni, mentre i cultori
della Scienza non si sentono in dovere neppure di un vago accenno
deontologico a tutelare il buon funzionamento della ricerca, come se le
responsabilità dello scarsa autorevolezza dell’Accademia nel nostro
paese fossero da addebitare esclusivamente a politici demagoghi,
giornalisti impreparati e popolo-somaro. Qui abbiamo ampiamente superato
la partigianeria, siamo scaduti nella faziosità più totale.
Ma passiamo al punto secondo me più critico. Con espressioni del tipo ‘patto trasversale‘
e affermazioni come ‘la Scienza non ha alcun colore politico’ o anche
solo per l’insistenza a usare la parola ‘Scienza’ al singolare e in
maiuscolo, si veicola un’idea di oggettività e neutralità della ricerca,
concetto che traspare anche dai numerosi interventi pubblici di Burioni
e nelle sue opere.
Pure in questo caso, il virologo tende a generalizzare le specificità
del suo limitato ambito di indagine a tutte le branche del sapere, per
cui si fa portatore di concezioni – per usare un eufemismo – tardo
positiviste, utili forse per questioni relativamente semplici come
stabilire la sicurezza per la salute di un vaccino, ma totalmente
inadatte per affrontare lo studio della complessità, ossia la grande
sfida del XXI secolo. Ne Il supermarket di Prometeo, Marcello Cini così ribatte alla tesi di una scienza oggettiva che procede secondo un metodo unitario:
Questa analisi non tiene conto, per esempio, del fatto che, via via
che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della materia,
il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato
appropriato s’indebolisce e si assiste alla moltiplicazione dei
linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi
non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a
differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a diversi punti
di vista (culturali, epistemologici, tecnologici) a partire dai quali si
costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per
analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque
sempre più difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di
decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono
parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso “oggettivo”,
perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo”, perché il
punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto fra loro.
Una rappresentazione della scienza che non assuma questa varietà di
punti di vista in competizione, secondo me, impedisce a sua volta di
individuare la novità e la ricchezza del compito che la filosofia si
trova a dover affrontare.
Ezio Roletto è ancora più esplicito:
La concezione del metodo scientifico come procedura eterna e
universale per produrre conoscenza partendo dai fatti risale ai
positivisti, ossia ai primi decenni del 1800. Da allora la scienza ha
fatto progressi enormi e gli epistemologi contemporanei hanno
interpretato il modo di lavorare degli scienziati in modo meno
schematico, dando una grande importanza al ruolo dei modelli scientifici
e sottolineando l’aspetto creativo del ragionamento scientifico il
quale dipende molto dall’immaginazione, dalla creatività, dalle opinioni
personali e dalle preferenze individuali degli scienziati.
Che la concezione limitata di Scienza propugnata da Burioni e i suoi amici possa alla fine danneggiarla più di qualsiasi somaro?
Il Patto va in tribunale
Prendendo spunto dal manifesto programmatico del Patto trasversale
per la Scienza, il virologo pesarese e Guido Silvestri hanno poi fondato
un’associazione omonima; leggiamo dallo statuto:
Lo scopo dell’associazione è la promozione e la diffusione della
scienza e del metodo scientifico sperimentale in Italia al fine di
superare ogni ostacolo e/o azione che generi disinformazione su temi
scientifici, il tutto nell’ottica del precipuo interesse della tutela
della salute umana garantito costituzionalmente, contrastando altresì
ogni azione e/o condotta da parte di chiunque che possa pregiudicarla
sia in forma individuale che collettiva anche tramite illeciti civili,
amministrativi o penali…
Per conseguire lo scopo precipuo l’associazione può utilizzare tutti
gli strumenti di legge, compreso il ricorso all’Autorità giudiziaria
e/o amministrativa con azioni individuali e collettive, nonché tramite
la costituzione di parte civile in processi penali, ove risulti leso il
bene primario dello scopo associativo della correttezza dell’esercizio
della scienza e del metodo scientifico-sperimentale in Italia e della
tutela della salute umana garantito costituzionalmente, anche rispetto
ai destinatari della scienza e delle professioni tramite le quali si
estrinseca.
Il gruppo è passato dalle parole ai fatti tramite un’azione legale con cui ha citato in giudizio il discusso ‘nanopatologo’ Stefano Montanari,
relativamente ad alcune sue affermazioni sul Covid-19 pubblicate su
YouTube, giustificandola con l’allarme sociale che potrebbero provocare.
Personalmente, ritengo sempre una pessima idea coinvolgere la
magistratura in questioni scientifiche, perché il concetto giudico di
‘prova’ è molto diverso da quello di ‘evidenza empirica’, così come
quello di ‘ragionevole dubbio’ ha poco da spartire con il
‘probabilismo’. Bizzarro, inoltre, che chi da sempre avversa l’uso
strumentale delle sentenze dove si riconoscono danni da vaccinazione
sostenendo – giustamente – che i giudici non possano sostituirsi agli
scienziati, adesso invochi invece l’intervento dei tribunali per
ovviare, in definitiva, alla sua mancanza di autorevolezza.
Viene proprio da dire che chi semina vento raccoglie tempesta.
Infatti, come già accennato in precedenza, le strategie mediatiche
servite al successo personale di Burioni hanno parallelamente rafforzato
tante nemesi dello studioso del San Raffaele, le quali ottengono il
favore di una parte del pubblico non per la bontà delle loro
argomentazioni ma (penso soprattutto al caso di Montanari) per i modi di
fare meno supponenti e più aperti al dialogo, cosicché la simpatia
verso la persona finisce per riflettersi anche sulle sue teorie.
Insomma, Burioni chiede alla magistratura di raccogliere cocci che
lui, più o meno inconsapevolmente, ha contribuito a creare. Ma il fatto
più deprecabile è che, nell’esposto consegnato alle Procure di Modena e
Ancora, i legali del Patto abbiano suggerito addirittura l’oscuramento
dei canali YouTube (non solo dei singoli video incriminati) che hanno
diffuso le dichiarazioni di Montanari: un inutile atteggiamento censorio
da ministero orwelliano della verità, da condannare con tutte le forze.
La scienza deve essere democratica
Lo Stato non può intralciare lo spirito di ricerca. La ricerca deve
essere libera. I suoi apporti sono l’espressione della verità, e ciò che
è verità non può essere nocivo. Il dovere dello Stato è di sostenere la
ricerca scientifica e di incoraggiarla in tutti i modi, anche quando i
suoi risultati, agli occhi degli umani, non portano applicazioni
pratiche. Soltanto alla generazione successiva tali risultati potrebbero
produrre il loro effetto e avere allora delle conseguenze
rivoluzionarie.
A parte i toni un po’ roboanti, in tanti approverebbero questa presa
di posizione, sicuramente tutti i sostenitori del Patto; consenso che si
rafforzerebbe riportando un’esternazione successiva della medesima
persona:
A mio parere, la libertà non dev’essere limitata al solo campo delle
scienze naturali. Essa deve estendersi anche al campo del pensiero,
anzitutto alla filosofia.
Ma chi è costui? Forse un pensatore libertario alla Bertrand Russell?
Incredibile a dirsi, ho appena citato niente meno che Adolf Hitler, dal
libro Colloqui riservati di Adolf Hitler annotati da Martin Bormann.
Ovviamente, lungi da me sostenere che la libertà di ricerca sia in qualche modo un caposaldo nazista – del resto il Führer,
tra milioni di deliri criminali, una paio di cose giuste nella vita può
anche averle dette – intendo semmai sottolineare come essa, considerata
separatamente da altri valori, possa tranquillamente non solo convivere
con le peggiori forme di totalitarismo, ma persino essere incentivata.
Contrariamente ai convincimenti dei sostenitori di Progresso e Sviluppo,
la libera scienza non preserva dalle peggiori forme di barbarie,
potrebbe anzi costituirne un elemento fondamentale.
Per evitare ciò, occorre che al mondo della ricerca si applichino
tutti i contrappesi e i controlli a cui è soggetta qualsiasi istituzione
in un regime democratico; che non significa affatto, come paventa
Burioni, votare le leggi naturali per alzata di mano.
Si tratta invece di promuovere una grande opera di trasparenza,
sottoponendo a controllo sociale i meccanismi di progressione di
carriera, le procedure di validazione scientifica, i dispositivi di
proprietà intellettuale che limitano l’accesso alla conoscenza; oltre a
vigilare sui rapporti che l’Accademia intreccia con soggetti pubblici e
privati, onde chiarire sul nascere possibili conflitti di interesse.
In quest’ottica, Burioni rappresenta un punto di vista estremamente
reazionario e corporativo, convinto che l’autogoverno accademico, nella
sua torre d’avorio isolata dalla società civile, possa autonomamente
risolvere tutte le problematiche che l’affliggono, e che per riabilitare
l’autorevolezza della Scienza sia sufficiente distinguere tra chi ha i
titoli per parlarne e chi no.
Siamo quindi in presenza di uno studioso con i suoi indubbi meriti e
le cui conoscenze possono sicuramente essere di pubblica utilità; ma, in
ultima analisi, veicola concezioni perdenti e inadatte ai tempi che
corrono.
(continua)