Pubblicato su Decrescita Felice Social Network il 26 agosto 2012
Le organizzazione sindacali sono
tra le più attive propagandiste del mantra della crescita, di fatto
principale condivisione ideologica con il mondo imprenditoriale. Il
maggior sindacato italiano, la CGIL, ha addirittura dedicato uno
sciopero generale alla necessità di crescere, indetto il 6 maggio 2011.
I sindacati e la sinistra in generale sostengono la necessità di
incrementare il PIL perché l’aumento di reddito consentirebbe di
allargare la base imponibile (con cui sovvenzionare i servizi al
cittadino) ma soprattutto permetterebbe di fronteggiare la
disoccupazione, secondo il ragionamento: più produttività = più posti di
lavoro. Tale equazione – talvolta chiamata ‘effetto cascata’ –
considerata una verità auto-dimostrata da tutti, dai liberisti più
sfrenati ai comunisti più irriducibili, effettivamente ha avuto senso
nel periodo dei ‘trenta gloriosi’ (1945-1975) quando la ripresa
economica europea post-bellica era guidata dal modello di produzione
fordista e da logiche economiche keynesiane basate su grandi
investimenti pubblici a sostegno dei mercati interni, accompagnate a un
progressivo accordo con le forze sindacali per migliorare le condizioni
della classe lavoratrice, creando le premesse per un aumento dei consumi
che originasse una congiuntura economica favorevole. Con tassi di
crescita stabili intorno al 5-6% in un continente da ricostruire e
modernizzare, la disoccupazione non fu mai un problema evidente.
Questo quadro però è drammaticamente cambiato a partire dagli anni
Settanta, con la saturazione dei mercati europei, la fine della
convertibilità del dollaro in oro e soprattutto con l’introduzione
sempre più massiccia dell’automazione e delle tecnologie informatiche
nella produzione industriale. Le tecnologie labor saving hanno permesso
di risparmiare risorse umane e lo sviluppo delle reti informatiche ha
emancipato il capitale dai vincoli della nazione di origine, spianando
la strada alla produzione delocalizzata nelle aree del pianeta a minor
costo del lavoro (il tramonto del fordismo e l’avvento del toyotismo su
scala internazionale). Nel suo bestseller La fine del lavoro, Jeremy Rifkin ha affrontato per la prima volta questa scomoda verità:
“In un mondo nel quale il progresso
tecnologico promette un incremento drammatico della produttività e della
produzione aggregata, marginalizzando o eliminando dal mercato milioni
di lavoratori, l’«effetto a cascata» sembra un’ingenuità, se non una
vera stupidaggine. Continuare ad affidarsi a un obsoleto paradigma della
teoria economica in un’era post-industriale e post-terziario rischia di
essere disastroso per l’economia nel suo complesso e per la stessa
civiltà del XXI secolo…
Oggi molte persone trovano difficile comprendere come il computer e le
altre tecnologie introdotte dalla rivoluzione informatica – che avevano
sperato fossero in grado di liberarli – possano invece essersi
trasformati in un mostro meccanico che deprime i salari, distrugge
l’occupazione e minaccia la stessa sopravvivenza di molti lavoratori. Ai
lavoratori americani era stato fatto credere che, diventando sempre più
produttivi, sarebbero riusciti a liberarsi dalla schiavitù del lavoro;
ora, per la prima volta, si sta dicendo loro che spesso gli aumenti di
produttività non provocano aumenti del tempo libero, ma code all’ufficio
di collocamento”.
Solo per riportare alcuni dati concreti,
nel febbraio-marzo 2010 la Commissione europea ha calcolato per la UE
un aumento del PIL pari allo 1% – superiore a quella stimato, lo 0,7% –
mentre contemporaneamente l’Eurostat registrava una disoccupazione
stabile intorno al 10%. Nello stesso anno la Germania, locomotiva della
crescita europea, a fine giugno segnava un +3,7% rispetto all’anno
precedente e contemporaneamente 134.800 lavoratori tedeschi del comparto
industriale perdevano il posto. Gli USA addirittura hanno chiuso
l’ultimo trimestre del 2009 con una crescita netta del 5,7%, ma il
Dipartimento del lavoro nel gennaio 2010 ha constato solo un lieve
rallentamento del trend negativo, non una ripresa dell’occupazione.
Ma l’Europa e gli USA rappresentano il ‘vecchio’ mondo incapace di
affrontare le sfide dell’economia attuale, per cui forse è più corretto
concentrare l’attenzione sull’inarrestabile ascesa dei paesi del
cosiddetto BRIC, ossia Brasile, Russia, India e Cina. Ecco le
percentuali relative alla disoccupazione nel 2009, confrontate con la
crescita economica media annua del quinquennio 2004-2009 (dati tratti da
Il mondo in cifre 2012, edito da The Economist):
Brasile: crescita 3,5% disoccupazione 8,3%
Russia: crescita 3,9% disoccupazione 8,2%
India: crescita 8,3% disoccupazione 4,4%
Cina: crescita 11,4% disoccupazione 4,3%
Se Brasile e Russia preoccupano, perché i
dati sulla disoccupazione non sono molto dissimili da quelli della zona
Euro (9,4%) – che però, si badi bene, è cresciuta solo dello 0,8% – i
due giganti asiatici sembrano invece confermare gli assunti
tradizionali. In realtà, basta non fermarsi alla superficie per scoprire
una verità sconcertante: India e Cina possono vantare una
disoccupazione relativamente bassa perché, per molti aspetti, sono
ancora paesi non completamente sviluppati. Di fatto, malgrado la grande
esplosione industriale, sono ancora nazioni prevalentemente agricole,
perché in Cina l’agricoltura occupa il 38% della popolazione, in India
addirittura il 52% (a titolo di paragone, nell’Unione Europea gli
addetti all’agricoltura sono poco più del 5%). Questi dati indicano la
persistenza di un’agricoltura tradizionale a bassa tecnologia, che
richiede un alto tasso di manodopera. In Brasile e in Russia, dove è già
iniziata da tempo la modernizzazione del settore, gli addetti
all’agricoltura sono rispettivamente il 20% e il 10%. Una volta promossa
una massiccia modernizzazione agricola, ampiamente sostenuta da
istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, anche Cina e India si
troveranno a fare i conti con lo stesso problema.
Se la crescita non è la soluzione ma un problema per la creazione di
posti di lavoro, come intervenire a favore dell’occupazione? Le risposte
sono fondamentalmente tre:
1) operare una drastica riduzione degli
orari di lavoro e pensare a interventi come il reddito di cittadinanza
per liberare il tempo umano dal lavoro;
2) riconvertire la società e l’economia a una logica di sostenibilità.
Solo nel settore del risparmio energetico si potrebbero ottenere
risultati impressionanti: il Rapporto sull’efficienza energetica redatto
da ENEA e CESI RICERCA e poi ripreso dalla Commissione Energia di
Confindustria, sostiene la necessità di un “piano straordinario di
efficienza energetica”, che secondo le stime sarebbe in grado in 10 anni
di creare 1,6 milioni di occupati in più, permettendo un aumento della
produzione industriale di 238 miliardi, il taglio di 207 milioni di
tonnellate di CO2 e 14 miliardi di risparmio in bolletta.
3) intraprendere una seria riflessione sullo sviluppo tecnologico, che
dovrebbe riconsiderare la possibilità di una tecnologia a basso consumo
energetico e ad alta intensità di lavoro, meno alienante e più a misura
d’uomo (una tecnologia ‘conviviale’ o ‘intermedia’, per utilizzare le
definizioni di Ivan Illich ed Ernst Friedrich Schumacher)
Infine, a livello individuale e
comunitario (è difficile immaginare un sostegno statale), si possono
promuovere le pratiche di ‘scollocamento’ rese celebri da Simone Perotti
nelle sue opere.
Se non si intraprenderà una svolta in questa direzione, possiamo solo
sprofondare ulteriormente nel baratro della grande crisi economica,
ecologica e sociale insieme alle illusioni di crescere.
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