sabato 4 maggio 2024

Caso Byoblu: riflessione oltre le tifoserie

 Pubblicato su Decrescita Felice Social Network il 6 aprile 2021

La decisione di YouTube di chiudere il canale di controinformazione Byoblu di Claudio Messora, come prevedibile, ha scatenato reazioni per lo più ispirate alla simpatia o al disprezzo verso un personaggio che, tendenzialmente, per le posizioni estremamente radicali si tende ad amare od odiare.

Un vero peccato perché, ragionando lucidamente sulla questione, emergerebbero tanti aspetti che meriterebbero di essere sviscerati, al di là dei gusti personali. Proviamoci qui, allora.

Pericolosa egemonia dei social network – Non sono solamente i ‘cospirazionisti’ a preoccuparsi del ruolo egemonico e sostanzialmente monopolista assunto dai principali social network (Facebook, Instagram, Twitter, YouTube e Twitch su tutti), ossia una ristretta cerchia di multinazionali private che si sono arrogate il diritto di concedere o togliere visibilità a persone e contenuti, senza però assumersi le responsabilità che spetterebbero ai normali editori. Si sta verificando ciò che vent’anni fa paventava Jeremy Rifkin ne L’era dell’accesso: sono sorti potenti gatekeeper che, controllando i principali flussi di informazioni di Internet, le filtrano e le promuovono nella deregolamentazione più totale. Non siamo ancora al Grande Fratello orwelliano, ma senza importanti interventi correttivi l’instaurazione di una realtà distopica in stile 1984 si fa sempre più reale.

L’opacità dei processi decisionali è evidente soprattutto per quanto riguarda rilevamento e punizione delle infrazioni. YouTube ha sospesso Byoblu, un canale di informazione con più di 500.000 iscritti e 200 milioni di visualizzazioni complessive, senza sentire la necessità di diffondere un comunicato per spiegare le ragioni della decisione. Rimane quindi la sola versione di Messora, che, a chi conosce un po’ le prassi della piattaforma di proprietà di Google, lascia effettivamente abbastanza dubbi. Tuttavia, non mi risultano smentite alle sue dichiarazioni, che parlano di provvedimenti presi sulla base di video caricati on line ma non ancora resi pubblici e altre anomalie che, se realmente accadute, delineerebbero un quadro piuttosto sconcertante.

Per inciso, altri social media si comportano in maniera ancora più discutibile. Eloquente l’odissea subita dallo streamer italiano Sdrumox su Twitch, addirittura bannato a vita (su YouTube se non altro l’oscuramento colpisce il canale e non il possessore dell’account, che può quindi aprirne un altro) dopo mesi di tribolazione passati nel tentativo di blandire i gestori della piattaforma nel vano tentativo di chiarire la propria posizione.

Spregiudicatezza di Messora – Messora può non piacere, tuttavia non solo non è stupido, ma conosce le dinamiche della comunicazione come pochi. Essendo per nulla un ingenuo, era quindi consapevole di agire sul filo del rasoio e la decisione di YouTube non è stata certa un fulmine a ciel sereno né per lui né per chi, da tempo, constatata l’aumentato zelo nel verificare e bannare (o ‘solamente’ demonetizzare) i contenuti pubblicati.

Quello che forse non tutti sanno, invece, è che YouTube da tempo ha smesso di essere una gallina dalle uova d’oro, fatto testimoniato dalla migrazione di massa di tanti utenti sulla nuova Terra Promessa Twitch, che consente guadagni molto maggiori ma le cui linee guida rigidamente improntate al politicamente corretto sono difficilmente compatibili con un prodotto controverso come Byoblu.

Immediatamente dopo la chiusura subita su YouTube, Messora ha avviato una campagna di raccolta fondi per creare un canale sul digitale terrestre, che ha riscosso un successo clamoroso riuscendo a reperire in poche ore una somma addirittura superiore agli €150.000 richiesti (mentre scrivo, le donazioni hanno quasi raggiunto quota €280.000). Enzo Pennetta, grande fan di Messora, ha commentato su Twitter: “YouTube con la sua arrogante censura trasforma la propria vittoria nella più clamorosa delle sconfitte. Grazie YouTube, adesso per merito tuo @byoblu avrà un canale nazionale”.

La creazione di canali tramite crowdfunding rappresenta l’ultima frontiera dell’evoluzione televisiva dopo l’avvento del digitale, già sperimentata con ottimi risultati negli USA: sicuramente un fine conoscitore dei mass media come Messora studiava da tempo il fenomeno e si stava attrezzando per replicarlo in Italia.

Le massicce donazioni, oltra a testimoniare dell’affetto dei tantissimi follower e simpatizzanti, in parte possono essere elargizioni di persone che, benché non stimassero particolarmente Byoblu, hanno voluto offrire un segno di solidarietà in stile Voltaire (“Non sono d’accordo con quello che dici ma darei la vita affinché tu possa dirlo”). In ogni caso, è fuori discussione che la decisione di YouTube abbia agito da catalizzatore per un’iniziativa che, altrimenti, avrebbe raggiunto l’obiettivo meno celermente.

Intendiamoci, da amante del punk provo solo ammirazione per chi fa buon viso a cattivo gioco approfittando delle velleità più o meno censorie dei potenti di turno. Se Messora è riuscito a imbastire la sua personale ‘grande truffa del rock and roll’, alla maniera dei Sex Pistols, ha tutta la mia stima per questo. Basta solo riportare tutto alle giuste dimensioni: i martiri della libertà di espressione sono un’altra cosa. Considerazione valida nel 1977 per Malcolm Mclaren, Johnny Rotten, Sid Vicious, Steve Jones e Paul Cook e oggi con Messora.

Le ragioni di un successo – Un anno fa, solidarizzai contro la richiesta, inoltrata alla magistratura dall’associazione Patto trasversale per la scienza di Burioni e soci, di oscurare il canale Youtube di Byoblu, ma non mi feci scrupoli a prendere le distanze da quel modo di fare informazione. Senza ripetere quanto già espresso allora, ribadisco la mia diffidenza derivante da due concetti chiave del suo stile giornalistico che trovo fuorvianti e controproducenti, oltre che profondamente scorretti. Il primo è l’assioma biecamente postmoderno ‘la verità non esiste’, ripetuto a spron battuto da Messora, usato in modo spudorato per avallare qualsiasi costruzione narrativa vagamente argomentata, in barba a prove ed evidenze.

Il secondo invece traspare dalle dichiarazioni rilasciate dopo la punizione subita da YouTube: La nostra colpa è questa ossessione di voler far parlare i cittadini qualunque, di mostrare le notizie anche da un altro punto di vista, di concedere un palcoscenico anche alle idee che per i media non esistono, ma che sono largamente diffuse e secondo me hanno pieno diritto di rappresentanza”.

Un giornalista non può limitarsi a fare lo speaking corner, presentando opinioni bizzarre e, da perfetto ignavo, lavarsene poi le mani lasciando allo spettatore la facoltà di credere o meno a quanto presentato (che magnanimità!). Così possono comportarsi Fedez e Luis quando invitano un personaggio eccentrico alla Biglino al podcast Muschio selvaggio, ad esempio, perché il loro mestiere è fare gli intrattenitori. Il ruolo del giornalista, invece, è di venire in soccorso del cittadino per verificare la fondatezza di informazioni che, altrimenti, oggigiorno chiunque potrebbe reperire da solo on line, senza alcuna intermediazione. L’analisi critica delle fonti è un compito imprescindibile da cui non può esimersi chi opera nell’informazione.

Tuttavia, per quanto si possa deprecarne l’operato, il successo di Byoblu è innegabile ed è destinato a crescere con il passaggio in televisione. Come spiegarlo? Tanti detrattori avranno già pronta la spiegazione facile del pubblico-somaro che ragiona di pancia, malato di analfabetismo funzionale, vittima del bias, incapace di verificare l’attendibilità delle notizie ecc. Tale ragionamento, però, proviene da persone non meno illuse (e ideologizzate, anche se per ragioni differenti) dei fan irriducibili di Messora.

La ‘colpa’ del successo di realtà quali Byoblu è da imputare a una macchina dell’informazione ridotta oramai alla parodia di se stessa, riuscita persino a peggiorare ulteriormente i suoi standard qualitativi durante la pandemia, banco di prova per testare un suo rilancio di credibilità. Un esempio tra i moltissimi citabili: durante la conferenza stampa del 26 marzo, il presidente del consiglio Draghi ha lanciato un’accusa gravissima alle aziende produttrici dei vaccini, affermando che “Ce ne sono alcune, e non faccio nomi, che hanno venduto le cose anche due, tre volte”.

Invece di montarci sopra un più che giustificabile scoop avviando inchieste degne di questo nome, le testate giornalistiche e televisive hanno per lo più preferito insabbiare le dichiarazioni bomba del premier (invece di incalzarlo e smuoverlo dalla sua reticenza, ricordandogli i suoi doveri verso la popolazione che governa), preferendo attribuire grande rilevanza esegetica a frasi banalissime del tipo “Andrei in vacanza volentieri”.

Byoblu rappresenta la versione degenerata dell’informazione di cui si sentirebbe davvero bisogno, meno ossequiosa dei potenti di turno e realmente interessata a fungere da cane da guardia della democrazia, invece che accucciata nei confronti di azionisti e inserzionisti, preoccupata solo di creare un finto clima di normalità. Senza prendere atto di ciò, finiremo solo per rimanere stretti ancora di più in una morsa mortale tra fake news e propaganda di regime.

Rispondo a Ugo Bardi

 Pubblicato su Decrescita Felice Social Network il 16 maggio 2022

Gentile Prof. Bardi,

da sostenitore della decrescita felice e da persona che ha sempre apprezzato la brillantezza dei suoi studi unitamente alla rara capacità di uscire dalle anguste torri d’avorio dell’Accademia, sono ovviamente rimasto molto deluso dal suo articolo Il Ritorno di Madonna Povertà: con la storia della “decrescita felice” ci hanno pesantemente imbrogliato.

Per carità, la decrescita felice è tutt’altro che esente da critiche, anzi. Giusto per fare un esempio, con tutta la l’enfasi concentrata sul risparmio di energia (la famosa metafora del secchio bucato di Pallante) e con alcune posizioni troppo rigide e prevenute sulla preservazione dei terreni agricoli e dei paesaggi, sicuramente alcuni decrescenti non hanno contribuito sufficientemente alla causa delle rinnovabili, a cui lei giustamente attribuisce un’importanza fondamentale.

Tuttavia, proprio chi avrebbe potuto esprimere obiezioni acute, sensate e pertinenti, ha preferito lanciarsi in un’invettiva sulla decrescita non dissimile dalle invettive con cui se ne sono usciti tanti politicanti o le madamin pro TAV. Scrive infatti: “A parte i dettagli, mi sa che ci stiamo muovendo esattamente verso questo tipo di cose: povertà abbietta. In sostanza, con la storia della “decrescita felice” ci hanno imbrogliato in modo molto pesante”. Davvero sconcertante, pensando che proviene da qualcuno che ha fatto parte del comitato scientifico di Associazione per la Decrescita, ragion per cui mi risparmio di spiegare per la milionesima volta la differenza tra recessione e decrescita ecc. per non offenderne l’intelligenza.

Come se non bastasse, replicando ad alcuni commenti al post, ha addirittura reincarato la dose: “L’idea che la decrescita a livello individuale sia una buona idea poteva venire in mente solo a persone che non han capito nulla di come funziona il sistema economico (Jevons l’aveva capito benissimo: il suo non era per niente un “paradosso”… Per essere più chiaro, Jevons dice che se io decido di non usare una risorsa (decrescita personale) qualcun altro la userà. Il risultato della mia personale virtù ecologica sarà che io mi impoverisco e che qualcun altro diventa più ricco. Ma l’idea della “decrescita felice” è sempre stata esattamente questa: impoverire i poveri e arricchire i ricchi. E il bello è che qualcuno ha creduto che fosse una cosa buona.”

Innanzitutto, l’ideologia basata sull’impoverire i poveri per arricchire i ricchi esiste da ben prima che Latouche e Pallante venissero al mondo e si chiama capitalismo. Se lo scopo della decrescita felice fosse veramente quello, allora sarebbe osannata da tutti i politici e i membri delle élite, invece di essere costantemente oggetto di vituperio e contumelie.

In secondo luogo, perché professore ha sempre ostentato con orgoglio la sua Citroen Ax riconvertita a motorizzazione elettrica? Per lei non si applica il Paradosso di Jevons? Qualcun altro non avrà forse consumato al posto suo la benzina risparmiata o sfruttato i materiali non impiegati riutilizzando carrozzeria, telaio e parti meccaniche da un veicolo già esistente?

Battute a parte, mi permetto una piccola osservazione sul Paradosso, consapevole dei rischi perché sto sconfinando nel campo dove lei è l’autorità mentre io solo un principiante con qualche cognizione in materia. Se non ricordo male, l’economista inglese sosteneva qualcosa di un pochino diverso da “se io decido di non usare una risorsa qualcun altro la userà”.

Notando come i miglioramenti di efficienza della macchina a vapore avessero aumentato e non diminuito il consumo complessivo di carbon fossile, ne dedusse che il perfezionamento tecnologico, se non vincolato a precisi limiti produttivi, incentiva anziché rallentare lo sfruttamento della materie prime.

I movimenti della decrescita cercano appunto di creare i presupposti culturali per superare l’idea secondo cui la felicità umana sia correlata all’aumento dei consumi tout court, evidenziando anche come pratiche diversa da quelle del business as usual possano garantire livelli di comfort simili agendo però in direzione della sostenibilità. Il medesimo messaggio che, immagino, ha voluto trasmettere elettrificando la sua vecchia Citroen e rendendo il fatto di dominio pubblico.

Inoltre, mi pare che la critica sull’eccessiva attenzione posta dalla decrescita sulle scelte individuali giunga con qualche anno di ritardo, specialmente per quanto riguarda l’ambito italiano. Penso ad esempio alle sinergie che si sono create tra Movimento per la Decrescita Felice con l’Economia del Bene Comune, Ugo Mattei e altre realtà maggiormente concentrate sugli aspetti politici e sociali, che hanno permesso un salto di qualità anche all’interno di MDF. Basta una rapida occhiata al gruppo tematico sull’economia, ad esempio, per apprezzarlo.

Mi permetta infine un’osservazione “da collega”, ossia da blogger, sebbene con numeri decisamente inferiori ai suoi. Proprio in virtù della visibilità di cui (giustamente) gode grazie anche a casse di risonanza ‘generaliste’ come Il Fatto Quotidiano on line, sarebbe opportuno che, specialmente quando scrive in quei contesti, tenesse sempre a mente l’ingenuità di molti lettori riguardo a certe tematiche.

Viviamo in un’epoca dove degrado della biosfera e sovrasfruttamento delle risorse, aggravate da scelte politiche scellerate votate alla distruzione, impediscono di buttare la polvere sotto il tappeto come si è tentato disperatamente di fare fino ad ora. Il monito di Draghi “Volete la pace o i condizionatori accesi?” (ricalcato pari pari sul mussoliniano “volete burro o cannoni?”) preconizza il tentativo delle élite di imporre misure di austerità alle masse per favorire ristrette minoranze privilegiate, edulcorandole di idealismo.

Preso atto di ciò, basta un attimo per scambiare lucciole per lanterne, specialmente quando non si conoscono a sufficienza tematiche complesse come quelle legate alle sostenibilità. Le propongo uno stralcio di un intervento di Carlo Freccero:

“Il rapporto suoi limiti dello sviluppo”, commissionato al MIT del Club di Roma viene pubblicato nel 1972. Nel pieno dell’industrializzazione il libro ci ammonisce sul pericolo che la crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione di cibo e di sfruttamento delle risorse, porti il nostro pianeta al collasso. Troviamo già qui tutti i temi dell’agenda 2030 e del Great Reset. Non è casuale.

Aurelio Peccei, fondatore del Club di Roma è un mito per Schwab, ed è intervenuto direttamente, alle origini del WEF, portando il suo contributo teorico. A parte il bellissimo libro di Cesarano Collu, “Apocalisse e Rivoluzione” che identifica “I limiti dello sviluppo” come “utopia capitalista” la sinistra non sembra registrare l’evento. Al contrario sembra introiettare progressivamente questa utopia”.

Chi leggesse ingenuo e ignaro il suo post e le relative tirate contro la decrescita felice, penserebbe che lei stia portando acqua al mulino di questo tipo di posizione, fatto davvero paradossale dal momento che è da poco uscito un suo libro dove si sottolinea l’accuratezza di quello studio del Club di Roma, alla faccia dei cospirazionismi da quattro soldi.

Insomma, la decrescita felice e i suoi sostenitori hanno tante mancanze per cui occorre senza dubbia una costante opera di critica costruttiva. Tuttavia, “truffe”, “balle” e “imbrogli” provengono da altre parti, questo è poco ma sicuro.

Cordialmente (o per lo meno senza alcun rancore, davvero)

Igor Giussani

In difesa e contro Claudio Messora

 Pubblicato su Decrescita Felice Social Networl il 31 marzo 2020

Il 24 marzo scorso, l’associazione ‘Patto trasversale per la scienza’, presieduta da Pietro Luigi Lopalco e di cui Roberto Burioni è il membro di maggior spicco, ha denunciato il discusso nanopatologo Stefano Montanari per ‘pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, per le quali possa essere turbato l’ordine pubblico’ (art. 656 del Codice Penale), a causa delle dichiarazioni riguardanti la pandemia da Coronavirus rese pubbliche da tre canali YouTube, il più noto dei quali è sicuramente Byoblu di Claudio Messora. [1] L’esposto, inviato alle procure di Modena e Ancona, si chiude con l’invito “a considerare l’adozione di ogni provvedimento anche volto ad oscurare e/o a sequestrare i canali YouTube ove son presenti detti video, se non già rimossi”.

L’iniziativa ha ovviamente scatenato reazioni vibranti e tante voci si sono levate a difesa di Montanari e Messora in nome del pluralismo e delle libertà di stampa. Paolo Barnard ha parlato di “testamento imbarazzante delle tendenze reazionarie della scienza moderna” e poi, rincarando la dose:

State umiliando il ricordo di Galileo Galilei. Ritirate l’esposto contro Byoblu, oppure togliete la parola scienza dal vostro patto. I dogmi scientifici odierni probabilmente sono giusti, ma devono essere sfidati.

Ritengo quanto mai opportuno mantenersi lucidi ed evitare semplificazioni improprie, così come atteggiamenti faziosi pro o contro. A mio giudizio, l’intera vicenda si caratterizza per tre aspetti fondamentali:

  • l’opportunità di denunciare Montanari;
  • la minaccia di oscurare Byoblu e gli altri soggetti che gli hanno dato visibilità;
  • la condotta giornalistica di Messora.

Analizziamoli quindi separatamente.

Denuncia contro Montanari

In linea generale, chiunque deve assumersi la responsabilità delle proprie azioni, soprattutto chi, come Montanari, gode di una certa notorietà e credibilità presso alcuni ambienti (penso alla piccola ma agguerrita comunità no-vax). Tuttavia, a fronte di una questione dagli effetti più mediatici che giudiziari – la legge prevede al massimo un’ammenda di €309 o tre mesi di arresto – è meglio accantonare i principi astratti e ragionare in termini pragmatici.

Attualmente, il nanopatologo modenese è per lo più considerato, a seconda degli orientamenti personali, o un paladino della verità perseguitato dai fiancheggiatori della lobby farmaceutica oppure un mero ciarlatano; difficilmente una sentenza di condanna intaccherebbe la fiducia dei suoi sostenitori, mentre, nel caso in cui i giudici non ravvisassero gli estremi di reato, ciò potrebbe essere facilmente frainteso (oppure usato strumentalmente) come prova della fondatezza delle sue teorie (“se non lo condannano, significa che ha detto la verità”, mentre il bene tutelato  dalla legge non è la correttezza cronistica della notizia bensì l’ordine pubblico).

Insomma, a prescindere da quanto deciderà la magistratura, intraprendendo la via giudiziaria Burioni e soci potrebbero aver commesso un clamoroso autogol, oltre ad aver servito un comodo assist ai detrattori per additarli a novelli Torquemada. Forse, per il bene di tutte le parti in causa, conveniva lasciare in pace i giudici e, come di consueto, approfittare della popolarità del virologo del San Raffaele sul Web e in televisione per ‘blastare’ gli avversari, rimanendo nel campo della normale dialettica senza intraprendere quello legale.

Minacce a Byoblu

Se la richiesta di rimuovere i video incriminati, per quanto discutibile, può poggiare su basi ragionevoli, trovo invece assolutamente irricevibile la pretesa di oscurare i relativi canali YouTube di appartenenza. Sono sempre stato un appassionato difensore della libertà di espressione e detesto la censura di ogni genere verso chicchessia, quindi oggi ripropongo a Messora lo stesso augurio che feci due anni fa a un soggetto decisamente ostile a Byoblu, ossia il blog di debunking Butac, allorquando il suo sito Web venne sequestrato dall’autorità giudiziaria successivamente a una querela per diffamazione.

Non è tollerabile sdoganare una prassi a cui sarebbero soggetti, se diventasse la norma, solo i pesci piccoli dell’informazione. Mi chiedo altresì quando i membri del Patto, coerentemente con il comportamento tenuto con Montanari, provvederanno a denunciare anche Libero, Giornale e compagnia bella, chiedendone la chiusura per l’infinità di panzane antiscientifiche scritte riguardo al riscaldamento globale, problema certamente non meno grave del Coronavirus.

Condotta di Messora

E veniamo al punto secondo me più saliente dell’intera vicenda. Infatti, il mio auspicio affinché Messora e gli altri youtuber possano continuare la loro attività deriva unicamente dal precetto di Voltaire per cui non sono d’accordo con le tue idee ma darò la vita perché tu possa esprimerle, dal momento che intendo prendere nettamente le distanze dall’editore di Byoblu [2] e dalle modalità con cui sono state diffuse le teorie di Montanari. A tal fine, premetto una breve riflessione su tutta la galassia dell’informazione ‘alternativa’ che, grazie allo sviluppo sempre più capillare del Web, riesce talvolta a uscire dalla nicchia e a proporsi al grande pubblico, proprio come la realtà fondata da Messora.

La controinformazione ha ragione di esistere solo se si distingue concretamente dal business massmediatico, altrimenti si riduce a un suo parente povero. Deve perciò agire in modo da scardinare il rigido agenda setting e diradare la cappa oppressiva del pensiero unico, aprendo orizzonti oltre le ristrettezze del pettegolezzo politico, l’attenzione morbosa per la cronaca nera, la ricerca dello scoop fine a se stesso, l’insopportabile tendenza all’informazione-intrattenimento e alla banalizzazione. Purtroppo, molti ‘alternativi’ stanno di fatto scimmiottando il giornalismo tradizionale differenziandosi unicamente per i contenuti ‘controversi’, ‘politicamente scorretti’ ed ‘eretici’, come se bastasse costruirsi una reputazione di qualità semplicemente dicendo l’opposto di quanto sostengono Repubblica, Corriere o i telegiornali; una tendenza che vedo purtroppo prepotentemente in azione nell’affaire Montanari-Coronavirus. Mi spiego meglio.

E’ troppo facile difendere l’operato di Messora appellandosi a quel tipo di libertà di espressione che consente al privato cittadino, ad esempio, di condividere contenuti dei terrapiattisti sui social network senza incorrere in alcun tipo di sanzione. Il giornalista, in ragione della mission su cui si fonda la sua attività, non può pararsi dietro a tale foglia di fico come giustificazione per contenuti scarsamente attendibili.

Essendo il suo ruolo quello di ricostruire e verificare la realtà dei fatti senza mai accettare acriticamente alcuna autorità, ne consegue che esprimere “dubbi sulla tesi che doveva essere l’unica dominante sul Coronavirus ” – per riprendere le parole di Messora in un video – non solo è legittimo, ma addirittura sacrosanto. Il problema non è certo dubitare della ‘verità ufficiale’, bensì come lo fai.

Più una tematica è complessa e delicata per l’allarme sociale che può scatenare, più il giornalista deve sentirsi in dovere di garantire un’informazione completa, accurata, poggiante su di una pluralità di fonti affidabili e prove concrete. Ciò richiede un lavoro di inchiesta lungo e meticoloso, svolto il quale puoi anche permetterti di smentire l’OMS, alzare i toni, seminare dubbi inquietanti e persino caldeggiare la trasgressione delle regole.

Messora, invece di cimentarsi in questo compito arduo e faticoso, ha preferito ottenere audience nel peggior stile della televisione trash, mettendo davanti alla telecamera un personaggio la cui unica patente di credibilità sull’argomento deriva dall’essere ‘controverso’ e lasciandolo parlare a ruota libera; insomma, ha puntato sul sensazionalismo per riscuotere viralità (missione compiuta: il video ha riscosso finora due milioni di visualizzazioni a fronte di circa 350.000 iscritti al canale).

Barnard e molti altri hanno prevedibilmente scomodato Galileo Galilei, di cui Montanari dovrebbe rappresentare una sorta di moderno epigono. Essi, enfatizzando la ‘sfida ai dogmi della scienza’ intrapresa dal genio pisano, si sono concentrati sul coraggio nell’affrontare solo contro tutti la Chiesa cattolica malgrado le prevedibili ritorsioni, fatto però che testimonia della sua grandezza umana, non di quella scientifica. Quest’ultima gli deriva dalle osservazioni accurate e dall’elaborazione di un metodo (quello ipotetico-deduttivo) che gli ha permesso di confutare le conoscenze della sua epoca e dimostrare la veridicità delle sue affermazioni anticonformiste. Spero che neppure i più sfegatati ammiratori di Montanari si spingano a considerarlo un fautore di rivoluzioni epistemologiche.

Accantonati i paragoni del tutto fuori luogo, potrebbero sembrare più consoni confronti con figure che, non meno audaci di Galileo, si sono scontrate frontalmente contro potenti lobby e interessi economici consolidati. Si può tracciare un parallelismo, ad esempio, con le vicissitudini di Rachel Carson?

In realtà, i due non hanno molto da spartire. Certo anche questa pioniera dell’ambientalismo, come il nanopatologo modenese, non ebbe paura di usare toni forti, attirandosi l’antipatia di svariati cattedratici e subendo pesanti campagne diffamatorie orchestrate dall’industria della chimica; diversamente da lui, però, la biologa statunitense, prima di pubblicare Primavera silenziosa – pesante atto d’accusa  contro l’impiego del DDT e dei fitofarmaci in agricoltura – dedicò quattro anni a intense ricerche bibliografiche e contatti con numerosi scienziati di istituzioni pubbliche come i National Institutes of Health e il National Cancer Institute; consapevole dei suoi limiti, sottopose la maggior parte dei capitoli scientifici alla revisione di specialisti (qui per chi fosse interessato a maggiori dettagli).

Il succo della faccenda è che la qualità fondamentale di uno studioso non è il coraggio o l’originalità, ma il rigore, lo stesso che dovrebbe caratterizzare il giornalista nel diffondere le notizie: al riguardo, Montanari e Messora non hanno dato grande prova di sé. Il primo, laureato in farmacia senza alcuna competenza riconosciuta nel campo della virologia e dell’immunologia, disserta polemicamente di Coronavirus sottraendosi alle procedure di validazione scientifica, senza aver condotto e pubblicato alcun tipo di ricerca; ciò nonostante, il secondo lo eleva ad auctoritas cercando il consenso facile di coloro che, non senza ragioni, nutrono sfiducia verso l’industria farmaceutica e le istituzioni pubbliche, per cui sono portati ad accogliere con favore qualsiasi voce ‘contro’.[3]

Per quanto mi riguarda, la controinformazione si trova a un bivio: o trova finalmente la sua dimensione distinguendosi dal giornalismo tradizionale sul piano metodologico, oppure, se punta alla viralità limitandosi ad avallare autoreferenzialmente contenuti bizzarri e ‘politicamente scorretti’ solo per apparire a tutti costi ‘fuori dal coro’, non ha alcun futuro, poco importa il clamore che riesce a suscitare. Del resto, non varrebbe proprio la pena di trasformarsi in delle Barbara D’Urso più seriose ed erudite, ma non meno vacue e pericolose.

 

[1] In sintesi, nei tre filmati incriminati Montanari sostiene che il Covid-19 sia un virus creato in laboratorio, che il numero di morti attribuito a tale patogeno sia sovradimensionato, che siamo di fronte a una “epidemia inesistente” contro la quale vengono intraprese misure esagerate e dannose, che l’eventuale vaccino sarebbe solo una trovata commerciale completamente inutile.

[2] Le accuse e la solidarietà si sono concentrate su Messora non solo in quanto più noto degli altri due youtuber coinvolti nella denuncia – Leonardo Leone e Salvatore DetoxStart – ma anche perché l’editore di Byoblu è del tutto assimilabile a un vero e proprio giornalista, pur non essendo iscritto all’Ordine. Da qui deriva anche la necessità di un comportamento più rigoroso di quello di un normale creatore di contenuti.

E’ bene specificare che, dei tre video incriminati, quello di Byoblu è stato pubblicato per ultimo, quando cioé le opinioni di Montanari riguardo al Covid-19 erano note ed era prevedibile lo scandalo che avrebbero suscitato una volta diffuse da un soggetto con maggiore esposizione mediatica dei precedenti.

[3] Se fossimo capaci di superare categorie manichee quali ‘ufficiale’ e ‘alternativo’, si paleserebbe un fatto di per sé abbastanza evidente: Byoblu che invita il dottore in farmacia Montanari facendolo passare per esperto di virologia non si differenzia concettualmente dai grandi organi di informazione che ospitano le stroncature malinformate della farmacologa e genetista Elena Cattaneo contro l’agricoltura biologica oppure le discutibilissime opinioni del fisico Antonino Zichichi e altri studiosi estranei alla climatologia riguardo al global warming. In tutti questi casi, si cerca di far breccia sull’opinione pubblica attraverso campagne mediatiche dove si sfrutta un testimonial non specialista dei temi trattati che deve risultare convincente grazie o all’autorevolezza acquisita in altri campi o alla sua fama di ricercatore anticonformista (unica differenza, effettivamente non trascurabile: ‘cane non mangia cane’, per cui Burioni e i suoi amici non sono soliti adoperare verso i membri dell’Accademia la stessa verve inquisitoria riservata ai cani sciolti alla Montanari).

Ultima importante precisazione: non mi permetto di disquisire dei meriti e delle competenze di Montanari nel suo settore di competenza (la microchimica), così come non contesto la sua buona fede – né tantomeno quella di Messora – non essendo del resto garanzia di alcunché; proverbialmente, la strada che conduce all’inferno è lastricata di buone intenzioni.

 

Pensiero critico, critica del pensiero 5/Una proposta

 Pubblicato su Decrescita Felice Social Network l'11 giugno 2020

Non è stato facile trovare una figura-simbolo che potesse in qualche modo servire da faro per elaborare una proposta concreta per la ricerca di un autentico pensiero critico. Dopo lunga riflessione, la mia scelta è ricaduta su Simone Weil, sia perché pochi come lei hanno dimostrato tanta accorata passione per la libertà di pensiero individuale, sia per l’apertura mentale che l’ha portata a compiere un percorso intellettuale originalissimo, sospeso tra anarchismo, marxismo e misticismo cristiano.

Scrive ne La prima radice:

 

La libertà di opinione e la libertà di associazione sono in genere menzionate insieme. E’ un errore. Eccetto nel caso di gruppi naturali, l’associazione non è un bisogno, ma un espediente della vita pratica.
Invece la libertà d’espressione totale, illimitata, di qualsiasi opinione, senza nessuna restrizione, né riserva, è un bisogno assoluto per l’intelligenza. Quindi è un bisogno dell’anima, perché quando l’intelligenza si trova a disagio l’anima ne soffre…
Nell’essere umano l’intelligenza può esercitarsi in tre modi diversi. Può applicarsi a problemi tecnici, cioé cercare dei mezzi per uno scopo prefissato. Può fornire un chiarimento quando si compie una decisione della volontà nella scelta d’un orientamento. E infine può agire da sola, separata dalle altre facoltà, in una speculazione puramente teorica, dalla quale è stata temporaneamente scartata ogni preoccupazione di azione pratica.
In un’anima sana l’intelligenza si esercita di volta in volta nei tre modi, con differenti gradi di libertà. Nella prima funzione essa è serva. Nella seconda funzione è distruttrice e dev’essere costretta al silenzio non appena incominci a fornire argomenti alla parte dell’anima che, in chiunque non si trovi nello stato di perfezione, prende sempre le parti del male. Ma quando si muove sola e separata, occorre che disponga di una libertà sovrana.

 

Per chi, come me, è completamente agnostico, potrebbe risultare un po’ complicato comprendere concetti resi tramite riferimenti religiosi quali ‘anima’, ‘stato di perfezione’ e simili; tuttavia, mi sembra di capire esattamente che cosa si intenda, ossia che la libertà di pensiero assoluta è doverosa e reclamabile solo su questioni totalmente avulse dalla vita pratica e che non prevedano di influire sull’opinione altrui.

Onde evitare equivoci è bene chiarire, che, pur condividendo l’analisi della Weil, prendo nettamente le distanze da alcune sue prese di posizione (forse volutamente polemiche ed estremizzate) che, da paladina della libertà individuale, finirebbero per attribuirle intenti abbastanza censori, ad esempio quando ritiene legittima “una repressione contro la stampa, le trasmissioni radiofoniche e simili, non solo se violino i principi della morale pubblicamente riconosciuta, ma per la bassezza del tono e del pensiero, per il cattivo gusto, la volgarità, per la morale sornionamente corruttrice” oppure quando condanna scrittori come André Gide per i contenuti immorali delle opere.
Ciò nonostante, c’è un aspetto che secondo me lei ha colto alla perfezione, sempre al netto delle provocazioni:

 

Tutti i problemi concernenti la libertà d’espressione si chiariscono, in genere, quando si sia stabilito che quella libertà è un bisogno dell’intelligenza e che l’intelligenza risiede soltanto nell’essere umano, individualmente considerato. L’intelligenza non può essere esercitata collettivamente. Quindi nessun gruppo può legittimamente aspirare alla libertà d’espressione, perché non c’è nessun gruppo che ne abbia il benché minimo bisogno.
Anzi, la protezione della libertà di pensiero esige che l’espressione d’una opinione da parte di un gruppo sia vietata per legge. Perché un gruppo, quando vuol avere opinioni, tende inevitabilmente a imporle ai membri. Presto o tardi gli individui si trovano ad essere, più o meno gravemente, impediti nella espressione di idee opposte a quelle del gruppo su vari problemi più o meno importanti, a meno che non ne escano. Ma la rottura con un gruppo comporta sempre delle sofferenze, o almeno una sofferenza sentimentale.

 

Per tale ragione, ritiene leciti i “gruppi di interessi”, come i sindacati, ma non i “gruppi di idee”, ragione che la spinge a condannare l’esistenza dei partiti politici.

La Weil subordina la libertà di espressione individuale all’unico valore che ritiene realmente superiore, ossia la verità, la cui ricerca rappresenta un dovere imprescindibile verso la società  soprattutto per chi rivesta un ruolo intellettuale.

 

Il bisogno di verità è il più sacro di tutti… Ci sono uomini che lavorano otto ore al giorno e che, di sera, compiono l’enorme sforzo di leggere per istruirsi. Non possono concedersi il lusso di effettuare ricerche e verifiche nelle grandi biblioteche.

 

Nell’era postmoderna della fine delle grandi narrazioni e dei giochi linguistici, dove tutto è considerato soggetto a interpretazione e in cui persino la scienza ha dovuto abdicare alla sua ‘esattezza’, fa uno strano effetto la parola ‘verità’; forse, proprio per questa ragione, la sua ricerca – intesa come sforzo, inevitabilmente limitato, di comprendere una realtà esterna a noi e indipendente dalle nostre opinioni – dovrebbe caratterizzare, oggi più che mai, un autentico spirito critico. La pensa così Anna Maria Lorusso, Professoressa Associata di Filosofia e Teoria dei Linguaggi presso l’Università di Bologna, in riferimento alla situazione creatasi con i media digitali, facendosi portatrice di un concetto di verità inserito una visione laica, spiegando come esso non sia affatto in contraddizione con l’accettazione del relativismo e il riconoscimento di limiti alla conoscenza:

 

A me pare che questo regime confusivo sia cosa molto seria su cui riflettere, poco tematizzata e sostanzialmente evasa da qualunque intervento di fact-checking, presunto antidoto verso le patologie della nostra epoca di post-verità. La post-verità non richiede correzioni e svelamenti; richiede discriminazioni e distinzioni. È cosa diversa.
Se il primo programma ha a che fare con un’idea del vero ancora corrispondentista (il vero corrisponde a uno stato del mondo), il secondo programma assume una posizione radicalmente discorsiva: seguendo Foucault, si pone il problema in termini di regimi di verità: ciò che è vero è tale dentro certi universi e secondo certi presupposti, non è tale per sempre. Non ci sono verità universali, e non ci sono verità oggettive da svelare, rispetto a cui offrire discorsi corrispondenti, perché le verità non si misurano nella corrispondenza 1:1 con la realtà, ma si danno in una catena di mediazioni, concettualizzazioni, traduzioni inevitabili per ricondurre ed esprimere il dato di dura realtà dentro un certo universo di cultura.
Le notizie che leggiamo pesano la realtà, quel mondo dei fatti che certamente da qualche parte si dà (come ogni realista – debole o forte che sia – rivendicherebbe giustamente) ma che i nostri strumenti non restituiscono tale e quale è, ma devono in qualche modo tradurre.
L’informazione è traduzione: organizzazione, racconto, definizione, delimitazione del reale. Si tratta di dare peso alle cose. E a volte si inganna intenzionalmente, e per qualche ragione e interesse si danno pesi sbagliati, altre volte si danno pesi diversi alle cose semplicemente perché si hanno valori, parametri, riferimenti diversi.
Per queste ragioni, una prudente ecologia della conoscenza e della responsabilità dovrebbe spingerci ai confronti, alle tare, alle ponderazioni, e non certo per accettare tutto come equivalente, ma per capire qual è il valore più affidabile, più accurato appunto. Spesso si confonde il relativismo concettuale con un annullamento della categoria di verità: il famoso post-moderno everything goes: tutto appiattito su uno stesso piano di equivalenza. Ponderare, viceversa, significa proprio cercare di gerarchizzare e fare distinzioni, pur senza adottare criteri che pretendono all’universalità…
Più che di fact-checking, insomma, dovremmo preoccuparci di un critical thinking e di un’educazione all’accuratezza di cui ahimè invece non si sente affatto parlare. L’accuratezza non è questione di buon senso, non illudiamoci (se no tutti ce l’avremmo a portata di mano), ma è l’esito di un lavoro critico di formazione e di un’attitudine da acquisire negli anni con l’esercizio. Dovremmo tutti abituarci all’idea che, come si viene formati alla letteratura, alla storia, alla fisica, alla matematica, si dovrebbe essere formati alla informazione, alla comunicazione, ai media, perché non sono – i media – sfere del sapere più semplici di altre.
Ma questa coscienza sembra ancora di là da venire. Preferiamo tutti pensare che i media siano facili, che i media ci intrattengano, che i media possano salvarci con la loro promessa democratica di disponibilità di tutto per tutti. E continuiamo così a confondere le possibilità tecniche con le possibilità epistemiche.

 

Giunti alla fine di questo viaggio in cinque puntate che ci ha portato a indagare sulla rivoluzione cognitiva provocata dalla diffusione di massa di Internet, su pregi e limiti del debunking e dell’informazione alternativa al mainstream, sul  ‘fenomeno Burioni’ e in cui abbiamo approcciato il pensiero di Simon Weil e alcune suggestioni su come non rimanere fagocitati dalle perversioni della Rete, cerchiamo in qualche modo di tirare le somme. Invece di un discorso sistematico su come pensare criticamente, mi limito ad alcuni consigli sparsi per il lettore, nella speranza che qualcuno magari riuscirà ad approfondirli e a svilupparli ulteriormente.

  • Il pensiero critico è tendenzialmente individuale e rifugge dalle logiche di fazione. Sentirsi integrati in un gruppo è importante, ma attenzione a non indulgere nel conformismo della propria nicchia.
  • Diffidiamo da tutte le dispute che presentano un carattere perentoriamente ‘pro o contro’, ‘noi vs loro’ e simili: potrebbe trattarsi di scontri tra bande camuffati da dilemmi concettuali.
  • Riserviamo l’orgogliosa espressione “penso con la mia testa” solo alle questioni puramente teoriche e astratte; mostriamo un atteggiamento molto più umile in tutte le altre. Non usiamola mai come scusa facile per evitare il confronto.
  • Di fronte a un’argomentazione che suscita in noi reazioni particolarmente sdegnate e rabbiose, fermiamoci a riflettere sui motivi che ci spingono a provare tali sentimenti: spesso alla base c’è semplicemente la frustrazione di non saperla confutare efficacemente.
  • La realtà non si capisce limitandosi a sbugiardare menzogne.
  • Se un’analisi conduce a conclusioni divergenti dal nostro punto di vista, non limitiamoci a trovare qualche altro documento che lo convalidi, prassi molto semplice oggigiorno con Internet. Cerchiamo piuttosto di comprenderla e di decostruirne i ragionamenti su cui si basa, se ne siamo capaci, in caso contrario prendiamone serenamente atto.
  • Nutriamo una sana diffidenza per i contenuti che assumono connotazioni sloganistiche e semplicistiche, specialmente quando vengono troppo incontro alle nostre visioni.
  • Soppesiamo con estrema cautela gli appelli all’unità e l’adesione a linee condivise.
  • Evitiamo sistematicamente le logiche dialettiche di branco e, nei limiti della ragionevolezza, proviamo sempre a differenziare la nostra posizione da quella del gruppo di riferimento.
  • Non caratterizziamo esclusivamente il nostro pensiero come ‘anti-qualcosa’, finiremmo solamente per scimmiottare ciò che odiamo.
  • Non sacrifichiamo la causa della ricerca verità in nome di nessun’altra. La menzogna non giustifica alcun fine, mai.

Pensiero critico, critica del pensiero 4/Il mainstream alternativo

 Pubblicato su Decrescita Felice Social Network il 14 maggio 2020

Dalla controinformazione al mainstream alternativo

Il fatto stesso che alla parola ‘informazione’ si accostino termini quali ‘mainstream’, ‘ufficiale’, ‘alternativa’, ‘contro’ (utilizzerò spesso queste etichette per mera comodità di comprensione), indica di per sé l’esistenza di un problema di fondo.

Esso è di vecchia data ed è legato alle commistioni con interessi politici ed economici che hanno progressivamente eroso i margini di indipendenza dei giornalisti, abbassando gli standard qualitativi e mortificando la deontologia professionale: le analisi critiche di Noam Chomsky ed Edward Herman ne La fabbrica del consenso o di Marco Travaglio ne La scomparsa dei fatti, per citare due opere celebri, restano più che mai attuali.

Il concetto di informazione alternativa/controinformazione nasce intorno agli anni Sessanta, su sollecitazione di ampi settori della società civile desiderosi di portare alla luce fatti e punti di vista pressoché ignorati. Ma è stato l’avvento di Internet a sparigliare le carte in tavola, in quanto strumento relativamente a basso costo ma dalle enormi potenzialità, con cui è diventato possibile contrastare il dominio di TV e giornali.

“Don’t hate the media, become a media!” era il celebre slogan del network Independent Media Center (Indymedia), vero e proprio organo di stampa del movimento no global, basato sull’idea allora rivoluzionaria e poi presto imitata di creare forme di giornalismo partecipativo, capaci di abolire la rigida distinzione tra comuni cittadini e operatori dell’informazione.

Le reazione, orchestrata congiuntamente da un potere abituato ad anni di informazione addomesticata e da una corporazione timorosa di perdere il suo status privilegiato, non si fece attendere e consistette in misure censorie dirette e indirette, dai sequestri dei server dei soggetti ‘pericolosi’ fino alle proposte di legge volte ad equiparare i siti Web alle testate giornalistiche, con tutti gli oneri burocratici del caso.

L’epoca di Internet medium ‘ribelle’ inviso all’apparato massmediatico tradizionale è durata relativamente poco, perché il grande business in breve tempo ha colonizzato massicciamente la Rete, imponendo molte delle sue logiche. Da una parte, i ritrovati tecnici hanno reso il Web sempre più interattivo e facile da usare, dall’altra è stato gradualmente contaminato da logiche di fruizione di tipo televisivo, dove gli utenti vengono incoraggiati a rimanere spettatori passivi.

Attualmente, i pionieri dell’informazione alternativa sono per lo più scomparsi o si sono notevolmente ridimensionati, mentre sono spuntati come funghi tanti ‘professionisti della controinformazione’ (per fare il verso a Sciascia) che, rispetto agli improvvisati dilettanti delle origini, non solo curano molto di più le strategie di comunicazione, ma possono persino progettare dei business plan sfruttando le opportunità di guadagno che i gestori delle piattaforme telematiche (YouTube, Twitch, Globalist, WordPress, ecc) offrono ai creatori di contenuti; a questi introiti si aggiungono quelli provenienti dalle donazioni, agevolate rispetto al passato da servizi on line quali Pay Pal e Patreon.

Ovviamente, ben venga se oggi è possibile costruirsi una prospettiva un po’ più solida rispetto alla precarietà totale delle origini, ma non è tutto rose e fiori. In molti casi, si finisce per dipendere dai mezzi forniti da aziende multinazionali (YouTube e Adsense appartengono a Google, Twitch è di proprietà di Amazon, ad esempio), che impongono condizioni abbastanza arbitrarie sulla pubblicazione e la monetizzazione dei contenuti.

Inoltre, per quanto le forme di remunerazione possano assomigliare ai classici metodi di autosostentamento (pagamento del prezzo di copertina di un giornale, abbonamenti, inserzioni pubblicitarie), bisogna tenere conto delle peculiarità del nuovo contesto digitale, che tendono a esasperare problemi già presenti nei vecchi mass media.

Il sensazionalismo, ad esempio, regna sovrano da ben prima di Internet, tuttavia, il Web lo ha portato al parossismo perché ha amplificato a dismisura le possibilità di trarne vantaggio, sfruttando modalità paradossali come il cosiddetto hate watching. Nessuno, infatti, comprerebbe un giornale sapendo che la lettura degli articoli pubblicati finirebbe per infastidirlo; allo stesso modo, difficilmente qualcuno si mette davanti al televisore per assistere a un programma sgradito, al solo scopo di inveire contro lo schermo. Nel contesto comunicativo bidirezionale della Rete, invece, utilizzare gli strumenti di interazione per flammare e trollare è la norma, tuttavia critiche, offese e dislike costituiscono visualizzazioni monetizzate al pari di elogi e ‘mi piace’.

Il creatore di contenuti è perciò incitato a speculare sul peggior clickbait, radicalizzando e  polarizzando le posizioni al fine di crearsi un folto pubblico di seguaci ma anche di hater, con questi ultimi talvolta più utili in termini di visibilità. Considerando che su YouTube si racimolano più o meno $2 ogni mille visualizzazioni e sui blog mediamente $0,5-1,5 ogni click a seconda del volume di traffico generato, è facile immaginare quanto possa essere indotto in tentazione chi voglia costruirsi una carriera on line.

Le dinamiche appena descritte hanno favorito la progressiva trasformazione della controinformazione in quello che chiamo mainstream alternativo, fenomeno dove si cavalcano i temi di tendenza caratterizzandosi però specularmente rispetto alle posizioni dell’informazione ufficiale, facendo leva anche sulla sfiducia generalizzata nei confronti dei giornalisti tradizionali.

 



Così facendo, si finisce spesso per banalizzare ogni questione in termini di ‘pro o contro’ oppure per inscenare polemiche irragionevoli, creando così terreno fertile per superficialità e fake news. Vengono promossi l’obbligo vaccinale e il nuovo standard 5g? Allora spazio ai no-vax e ai stop 5g. Burioni è ospite fisso a Che tempo che fa? Allora lasciamo la scena alle nemesi Stefano Montanari e Giulio Tarro. Filo-europeismo e russofobia sono gli atteggiamenti più diffusi su TV e giornali? Prendiamo il verbo da sovranisti e russofili. Si auspica un vaccino contro il Coronavirus? Contrapponiamogli la cura sierologica… Emblematico il destino del global warming: un tema ‘alternativo’ finché bellamente ignorato dalla gente che conta, sempre più percepito come mainstream (e quindi falso) da quando qualcuno nell’élite si è accorto del disastro incombente con almeno una trentina d’anni di ritardo.

Il mainstream alternativo si regge sostanzialmente su due assiomi:

  • il carattere ‘politicamente scorretto’ di una notizia è di per sé garanzia di credibilità;
  • è doveroso presentare una vasta gamma di punti di vista differenti, affinché ognuno possa poi decidere liberamente a chi credere, scegliendo tra un ampio ventaglio di opzioni possibili.

Il primo punto sarebbe di un’idiozia tale da non meritare commenti, se non fosse che ‘differenziarsi dal pensiero dominante’ è diventata una strategia di marketing della comunicazione del tutto aliena dalla promozione del pluralismo o dell’apertura mentale. L’attuale pandemia ha dimostrato come tanti scienziati e medici sconosciuti o finiti nel dimenticatoio siano saliti alla ribalta mediatica per il solo merito di esprimere opinioni eterodosse; si potrebbero portare tantissimi altri esempi simili dove lo ‘scettico’-‘eretico’-negazionista si è imposto sulla scena unicamente per la sua eccentricità (gli ‘scettici’ del cambiamento climatico di origine antropica, benché sempre confutati, destano regolarmente molto più scalpore degli studiosi affidabili).

Per inciso, pur essendo innegabili gli interessi gravitanti intorno al mainstream e la sua tendenza a una raffigurazione deformata e strumentale dei fatti, è del tutto fuorviante pensare che ciò significhi e sempre e comunque una falsificazione della realtà; in certi casi, anzi, potrebbe essere conveniente far venire a galla la verità. Basti ricordare come, durante le guerre in Vietnam e Iraq, alcuni settori dei poteri forti sicuramente non tacciabili di pacifismo, ma stufi delle ripercussioni negative (soprattutto economiche) dei conflitti, abbiano sicuramente favorito la diffusione capillare di notizie compromettenti (nonché vere) ai danni dello stato maggiore della difesa e dei governanti del momento. Per la stessa ragione, Chomsky ha sempre consigliato di seguire con attenzione la stampa economica che, essendo pensata per membri dell’élite e non per le masse, è meno probabile che sia tarata da intenti propagandistici.

Il secondo punto è solo apparentemente ragionevole e confonde il giornalismo, ossia ‘fare informazione’, con il ‘diffondere informazione’, cioé il puro e semplice spamming. Di fatto, nell’era dell’Internet di massa e dei social network, chiunque può facilmente ‘ascoltare campane differenti’ o scegliersi le verità preferite senza particolari aiuti esterni; ma, soprattutto, siamo sicuri che il modo migliore per rendere più consapevole un pubblico già sovraccaricato dal bombardamento mediatico mainstream sia quello di somministrargli pure narrazioni preconfezionate di segno opposto?

Ci sono buone ragioni per dubitarne. E’ assai probabile che il pubblico, sperduto nell’oceano di informazioni contrastanti pro-contro, alla maniera di un natante senza bussola sprofondi nella confusione più totale, andando a tentoni e affidandosi per lo più a conoscenze pregresse, intuito e pregiudizi (guarda caso, lo stesso comportamento che avrebbe attuato in assenza di informazioni), magari selezionando alcune fonti ed elevandole a vere e proprie auctoritas (ossia l’antitesi di qualsiasi autentico pensiero critico).

 


Estratto di un commento molto rivelatorio trovato su Facebook

 

Da qui possiamo capire quale fine dovrebbe proporsi un’informazione realmente alternativa al mainstream: recuperare la missione del giornalismo delle origini poi progressivamente snaturata, senza proporre nuovi idoli e dogmi da venerare al posto di quelli ‘ufficiali’, bensì fornendo gli strumenti culturali e cognitivi per aiutare il lettore-spettatore-utente del Web a orientarsi nella complessità del mondo reale, in modo che possa farsene un quadro inevitabilmente approssimativo ma di certo più realistico di quello di cui sarebbe capace con le sue sole forze intellettuali o, peggio ancora, facendosi indottrinare da chicchessia.

Tale giornalismo non sostituisce un’ideologia con un’altra e non applica strategie da tifoseria calcistica, ma decostruisce la retorica di ogni forma di potere e propaganda. Non cerca un esperto da contrapporre tout court a quello ostentato in televisione, però chiarisce quando uno studioso e una ricerca possono essere ritenuti attendibili. Non scade nel complottismo, ma individua le situazioni di conflitto di interessi. Non si arroga competenze che non possiede, tuttavia si sente in pieno diritto di esprimere riflessioni argomentate sull’invadenza dell’espertocrazia, sulla medicalizzazione della società, sulla pervasività della tecnologia sul mondo vissuto. Non cavalca l’agenda setting imperante ma prova a scardinarlo; e non si fa certo problemi a esporre ipotesi non ortodosse, ma a ragion veduta e non solo per differenziarsi a ogni costo.

Ciò non comporta affatto un impossibile sforzo di neutralità e la rinuncia all’opinione, perché qualsiasi punto di vista per definizione è ‘di parte’: significa però, questo sì, subordinare qualsiasi logica di fazione alla missione giornalistica, ossia ricostruire la verità dei fatti o quantomeno la cosa più simile a questa che si riesca ad abbozzare.

Tale impegno, però, richiede onestà intellettuale e il coraggio, quando necessario, di smentire i preconcetti del proprio pubblico di riferimento e di deluderne le aspettative, compito arduo nell’epoca in cui la polarizzazione della posizioni all’insegna del ‘noi vs loro’ rende tanto bene in termini di visibilità (e guadagni) e in cui la gente, abituata alla prassi dei social network, non riesce neppure a sopportare la vista di contenuti non del tutto allineati con le proprie visioni.

 

Pensiero critico e critica del pensiero/3 – Il fenomeno Burioni

 Pubblicato su Decrescita Felice Social Network l'8 maggio 2020

Roberto Burioni e il Patto per la scienza

L’ascesa di un influencer

Roberto Burioni merita un discorso a sé stante perché ha inaugurato un approccio che lo distingue radicalmente da qualsiasi altro scienziato che, come lui, ha fatto il suo ingresso nell’arena mediatica e in particolare sui social network.

Non so se si avvalga di spin doctor e consulenti della comunicazione, di sicuro per emergere è ricorso a strategie già ampiamente sfruttate da vari influencer per assurgere a Webstar, in particolare:

  • darsi una connotazione fortemente ‘controversa’, facendosi amare od odiare senza mezze misure, utilizzando toni provocatori anche quando obiettivamente non necessario;
  • usare gli hater come mezzo promozionale, rinfocolando costantemente la loro antipatia nei suoi confronti;
  • blastare senza pietà gli avversari dialettici, attraverso brevi scaramucce dove lui deve avere l’ultima parola e le sue controparti uscirne totalmente annichilite.

 


 




 



Questi atteggiamenti sono stato sfoderati non solo contro i famigerati no-vax, ma persino ai danni di alcuni colleghi; ad esempio, in disaccordo con Maria Rita Gismondo (direttrice di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze dell’Ospedale Sacco di Milano) sulla gravità dell’epidemia italiana di Covid-19, non ha esitato a definirla spregiativamente su Twitter “la signora del Sacco”. Per non parlare poi di certi ‘pensieri ad alta voce’ su tematiche estranee alla medicina.

 


 



 Il successo personale di Burioni come influencer è innegabile: mentre scrivo, vanta quasi settecentomila follower su Facebook e più di novemila su Instagram, inoltre il suo canale YouTube è vicino ai ventottomila iscritti; è spesso ospite di seguitissimi programmi televisivi e i giornali abbondano di sue interviste. Per tante persone, nel bene e nel male, la sua figura incarna LA medicina per antonomasia, se non addirittura LA scienza.

Ma che dire dell’efficacia come divulgatore scientifico? Secondo un sondaggio della Observa, dal 2015 al 2017 è sensibilmente aumentata la quota di italiani favorevoli a un obbligo vaccinale parziale o totale; a questo dato, però, fa da contraltare una ricerca di Eurobarometro del 2019, secondo cui il 46% teme effetti collaterali gravi, il 34% di essere contagiato dalla malattia che si vorrebbe prevenire, il 32% di rischiare un indebolimento del sistema immunitario.

Ma l’aspetto evidenziato dall’Eurobarometro più interessante in questa sede è che Internet e i social network rappresentano una fonte di informazione affidabile sui vaccini per un misero 4% degli intervistati, mentre la stragrande maggioranza confida in medici di base, pediatri e autorità sanitarie. Questi dati ridimensionerebbero pertanto il peso dell’operato di Burioni (e altri influencer) nell’orientare le scelte degli italiani, cosa che del resto non dovrebbe sorprendere.

Non serve una laurea in scienze della comunicazione per sapere che il suo armamentario dialettico a base di derisione, invettiva e provocazione è ottimo per infiammare uno scontro, quando cioé persuadere l’interlocutore  è ritenuto del tutto secondario rispetto a stroncarlo. Quanti diffidenti nelle vaccinazioni e nella scienza ‘ufficiale’ in genere si saranno ricreduti semplicemente con degli articoli di ricerca postati su Facebook, magari conditi da qualche contumelia?

Sicuramente, con la sua condotta spregiudicata ha focalizzato l’attenzione generale su di un tema prima secondario nell’agenda mediatica, ma la sensazione è che abbia per lo più intercettato un segmento di pubblico già allineato sulle sue posizioni da prima che diventasse una celebrità. Senza contare che, da quando la sua figura è emersa con prepotenza, svariati soggetti hanno ottenuto visibilità proponendosi dichiaratamente come anti-Burioni, per sedurne i numerosi hater.

Di conseguenza, con il virologo del San Raffaele si ripresentano gli stessi problemi già affrontati con il debunking, forse moltiplicati per mille, con il risultato di aver ulteriormente radicalizzato conflitti già esistenti: vista la ribalta conquistata, che tutto ciò rientrasse fin dall’inizio nei suoi obiettivi?

La congiura dei somari

‘Ma Burioni ci è o ci fa?’, si chiedono in tanti perplessi dai suoi comportamenti on line. Il sospetto che, quando agisce sui social, un po’ ‘ci faccia’ è confermato dal libro La congiura dei somari dove, pur ribadendo i medesimi concetti espressi sul Web, ricorre a toni più pacati ed equilibrati, malgrado alcune idiosincrasie traspariscano già a partire dal titolo.

I ‘somari’ descritti nell’opera, ossia persone senza la minimima preparazione che consultando qualche sito Web si sentono dei cattedratici, esistono e sono purtroppo numerosi (vittime del cosiddetto Effetto Dunning-Kruger); ma è del tutto fuorviante far credere che stiano ordendo qualsivoglia ‘congiura’ (ironia della sorte, il fact checker si scopre all’improvviso complottista!).

I gruppi no-vax (ovviamente i somari per eccellenza, secondo l’autore) rappresentano minoranze molto attive sul Web, capaci qualche volta di strappare spazi su TV e giornali nonché di attirare l’attenzione di politici in cerca di voti; ma la loro influenza complessiva è minima, soprattutto non c’è alcun indizio che condizionino la produzione scientifica. Per di più, se davvero queste persone meritassero l’accusa di ‘congiura’ solo per l’attivismo digitale, che cosa si dovrebbe insinuare a proposito dell’industria farmaceutica che solo nel 2018 negli USA ha speso 27,5 milioni di dollari in attività di lobbysmo?

Burioni ha la brutta tendenza a dirottare in toto sui somari da tastiera o su isolate ‘mele marce’ della medicina responsabilità che invece gravano pesantemente anche su parte del mondo scientifico. Nel libro, ad esempio, imputa la sciagurata decisione del presidente sudafricano Mbeki di sostenere le teorie eterodosse che negano il legame tra HIV e AIDS alla fiducia da questi riposta in non meglio specificati ‘scienziati alternativi’, omettendo invece che il suo principale fiancheggiatore fu Peter Duesberg, non un ciarlatano del Web bensì un pioniere nella ricerca dei retrovirus, i cui studi gli sono valsi nel 1986 l’elezione alla prestigiosa National Accademy Of Sciences; l’introduzione del suo libro Aids. Un virus inventato è stata curata dal premio Nobel per la chimica Kary Mullis. (Va riconosciuto a Burioni di aver ricostruito la vicenda sudafricana in modo più circostanziato e corretto nella successiva opera Balle mortali)

Il pamphlet, del resto, presenta una palese forzatura fin dal primissimo capoverso, inaugurato dalla frase divenuta oramai un vero e proprio aforisma:

La scienza non è democratica. La velocità della luce non si decide per alzata di mano, come ha detto Piero Angela, al quale tanto dobbiamo. Una palla di ferro gettata in mare andrebbe invariabilmente a fondo, anche se un referendum popolare stabilisse che il peso specifico del ferro è inferiore a quello dell’acqua.

A parte la concezione distorta di democrazia ridotta al mero strumento elettorale, chi avrebbe preteso di trasformare l’Accademia in una gigantesca assemblea di condominio? Neppure il no-vax più indefesso ha mai chiesto di interrogare gli elettori sulla salubrità dei vaccini, al massimo è stato richiesto di ampliare il ventaglio di fonti da consultare per esprimere un giudizio di merito ed eventualmente, quello sì, di abolire per via referendaria una legge sulla somministrazione obbligatoria.

In secondo luogo, la misurazione della velocità della luce e del peso specifico dell’acqua non hanno alcuna ripercussione pratica sulla società, a differenza del giudizio sulla sicurezza di un vaccino, che oltre a essere un farmaco con effetti sull’organismo è anche un prodotto commerciale su cui qualcuno vanta diritti di proprietà intellettuale e riscuote profitti. Se è pienamente giustificato che la politica affidi agli esperti competenti, nelle modalità opportune, di giudicare la portata degli eventuali rischi da vaccino, il varo di un trattamento sanitario obbligatorio richiede invece una discussione allargata a tutta l’opinione pubblica, anche perché entrano in gioco motivazioni di carattere extra-sanitario.

Burioni, per nulla stupido, è consapevole che in realtà non esiste alcuna congiura, bensì un clima di sfiducia generalizzato dove l’elemento fondamentale è rassicurare il pubblico sulla buona fede di medici e ricercatori. In La congiura dei somari pensa di riuscirci alla maniera di Blaise Pascal con la sua famosa scommessa sull’esistenza di Dio (risulta più conveniente crederci che no):

Insomma, la scienza è imperfetta e fatta di uomini ancora più imperfetti, e le verità che ci offre sono sempre parziali e mai troppo sicure. Però vale la pena di fidarsi, perché l’alternativa è costituita dal buio, dall’oscurantismo e dalla morte.

 

Il medesimo concetto, leggermente più elaborato, si ritrova in Balle mortali:

La scienza, pur con i suoi mille difetti e con i suoi mille errori, è quello che ci ha fatto progredire nel mondo. Certo, gli scienziati sono uomini e alcuni di loro sono disonesti e hanno compiuto azioni scellerate, e non sempre il sistema riesce a limitarli. Ma alla lunga, per fortuna, la scienza si corregge sempre e, così come Winston Churchill diceva che la democrazia è la peggior forma di governo, a parte tutte quelle che si sono sperimentate finora, lo stesso possiamo dire della scienza: è la peggior forma di conoscenza, a parte tutte le altre.

 

In entrambi i libri, lo scopo dichiarato di Burioni è difendere la scienza intesa come entità astratta e quasi eterea, imputando ogni problema che la riguardi a ignoranza e malvagità umana – somari, ciarlatani, ricercatori disonesti. In tal senso, trattasi di una strategia decisamente azzeccata, perché ridurre tutto a questioni di carattere morale gli permette di sorvolare su tante criticità interne alla scienza stessa che ne minano l’autorevolezza.

La disputa che lo ha visto coinvolto su Twitter contro il ‘pluricandidato al Nobel’ Giulio Tarro dimostra la ritrosia ad affrontare certi argomenti scabrosi, persino quando potrebbero volgersi a suo vantaggio contro il nemico di turno:

 

 


Invece di fare cabaret, Burioni infatti avrebbe potuto blastare molto facilmente Tarro, infliggendo probabilmente un colpo mortale alla sua crescente popolarità: gli sarebbe bastato passare al setaccio il curriculum comodamente consultabile sul suo sito Web. Sarebbero saltate fuori cose non propriamente onorevoli per un ricercatore di presunta fama internazionale, quali la collaborazione con i gruppi che fanno capo al famigerato Dr. Srinubabu Gedela (solito organizzare convegni farsa che si spacciano per eventi scientifici), pubblicazioni su ‘riviste predatorie’, il dichiararsi membro del corpo accademico di alcune pseudo università statunitensi che vendono diplomi e onorificenze, insieme ad altre evidenze totalmente incompatibili con ambizioni da Nobel. (Qui per maggiori dettagli)

Tuttavia, così facendo avrebbe dovuto ammettere che la scienza è gravata dall’editoria predatoria e altri problemi a livello sistemico (quindi non imputabili alle colpe dei singoli) decisamente preoccupanti. Da qui, sarebbe emerso che il vero dilemma non è dimostrare come il peggior scienziato sia preferibile al ‘miglior’ ciarlatano, bensì capire se il mondo della ricerca possa funzionare meglio di quanto non faccia ora, in particolare per quanto attiene al cuore della sua attività, ossia i processi di formazione della conoscenza scientifica.

Ad esempio, Ugo Bardi in un post su Cassandra Legacy provocatoriamente intitolato ‘So, You Think Science Will Save the World? Are You Sure?‘, prendendo spunto da un paper di Jonathan P Tennant, ha messo in luce gravi problematiche che caratterizzano la revisione paritaria (peer review), ossia il principio fondamentale di validazione scientifica. In sintesi:

  • una rivista scientifica non può di fatto rimediare a eventuali errori presenti in articoli pubblicati, anche se marchiani (una volta andati in stampa, diventano ‘scienza ufficialmente approvata’);
  • i revisori spesso appartengono alla ‘vecchia guardia’ e sono molto ostili verso le novità, specialmente quando faticano a capirle;
  • l’esigenza di ottenere l’approvazione dei revisori, unitamente alla necessità di citazioni per progredire nella carriera, induce il giovane ricercatore ad assumere atteggiamenti conformisti;
  • non esistono standard condivisi per le revisioni, vige il quasi più totale arbitrio.

(A chi volesse approfondire la tematica consiglio un altro ottimo contributo di Marco Viola su ROARS)

Se non intervengono importanti azioni di riforma, la revisione paritaria, invece di premiare la qualità, finirà per cronicizzare una tendenza degli scienziati già individuata da Thomas Kuhn negli anni Sessanta quando scrisse La struttura delle rivoluzioni scientifiche: quella di consolidare il paradigma di conoscenza esistente ostacolando le istanze di rinnovamento.

Patto trasversale per la scienza

Nel gennaio del 2019, Burioni si è fatto promotore del ‘Patto trasversale per la scienza’, manifesto programmatico in cinque punti:

1) Tutte le forze politiche italiane s’impegnano a sostenere la Scienza come valore universale di progresso dell’umanità, che non ha alcun colore politico, e che ha lo scopo di aumentare la conoscenza umana e migliorare la qualità di vita dei nostri simili.
2) Nessuna forza politica italiana si presta a sostenere o tollerare in alcun modo forme di pseudoscienza e/o di pseudomedicina che mettono a repentaglio la salute pubblica come il negazionismo dell’AIDS, l’anti-vaccinismo, le terapie non basate sulle prove scientifiche, ecc…
3) Tutte le forze politiche italiane s’impegnano a governare e legiferare in modo tale da fermare l’operato di quegli pseudoscienziati, che, con affermazioni non-dimostrate e allarmiste, creano paure ingiustificate tra la popolazione nei confronti di presidi terapeutici validati dall’evidenza scientifica e medica.
4) Tutte le forze politiche italiane s’impegnano a implementare programmi capillari d’informazione sulla Scienza per la popolazione, a partire dalla scuola dell’obbligo, e coinvolgendo media, divulgatori, comunicatori, e ogni categoria di professionisti della ricerca e della sanità.
5) Tutte le forze politiche italiane s’impegnano affinché si assicurino alla Scienza adeguati finanziamenti pubblici, a partire da un immediato raddoppio dei fondi ministeriali per la ricerca biomedica di base.

 

Non serve sottoporre il testo a un particolare decostruzionismo per coglierne alcune peculiarità, in primis che ‘Scienza’ è per lo più usato quale sinonimo di ‘medicina’, come si evince smaccatamente dal riferimento ai presidi sanitari e dal partigianissimo punto 5. Deformazione professionale? C’è da sperarlo, altrimenti, se applicate indistintamente a tutti i campi del sapere, le asserzioni del Patto risulterebbero alquanto discutibili.

Innanzitutto, perché la pseudo-scienza, per definizione, deve presentare un carattere ‘allarmista’? ll negazionismo climatico non ha forse una funzione rassicurante, sostenendo che gli sconvolgimenti naturali non siano di origine antropica e quindi negando qualsiasi necessità di cambiare il nostro modello di sviluppo, a partire dall’uso dei combustibili fossili? E’ curioso, in effetti, che in un manifesto scientifico del 2019 non compaia alcun riferimento all’ecologia; anche se Burioni, si sa, non è un amante della Natura.

 



 Al di là delle legittime preferenze personali, il tono generale del documento è che la funzione della Scienza sia quella di tranquillizzare i cittadini in contrapposizione alla ‘pseudo-scienza’ catastrofista: non proprio il contesto ideale per accogliere le Cassandre del malaugurio che si dedicano allo studio della biosfera.

Altro elemento di perplessità sono i ripetuti appelli a ‘tutte le forze politiche’ affinché assumano impegni solenni, mentre i cultori della Scienza non si sentono in dovere neppure di un vago accenno deontologico a tutelare il buon funzionamento della ricerca, come se le responsabilità dello scarsa autorevolezza dell’Accademia nel nostro paese fossero da addebitare esclusivamente a politici demagoghi, giornalisti impreparati e popolo-somaro. Qui abbiamo ampiamente superato la partigianeria, siamo scaduti nella faziosità più totale.

Ma passiamo al punto secondo me più critico. Con espressioni del tipo ‘patto trasversale‘ e affermazioni come ‘la Scienza non ha alcun colore politico’ o anche solo per l’insistenza a usare la parola ‘Scienza’ al singolare e in maiuscolo, si veicola un’idea di oggettività e neutralità della ricerca, concetto che traspare anche dai numerosi interventi pubblici di Burioni e nelle sue opere.

Pure in questo caso, il virologo tende a generalizzare le specificità del suo limitato ambito di indagine a tutte le branche del sapere, per cui si fa portatore di concezioni – per usare un eufemismo – tardo positiviste, utili forse per questioni relativamente semplici come stabilire la sicurezza per la salute di un vaccino, ma totalmente inadatte per affrontare lo studio della complessità, ossia la grande sfida del XXI secolo. Ne Il supermarket di Prometeo, Marcello Cini così ribatte alla tesi di una scienza oggettiva che procede secondo un metodo unitario:

 

Questa analisi non tiene conto, per esempio, del fatto che, via via che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della materia, il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato appropriato s’indebolisce e si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a diversi punti di vista (culturali, epistemologici, tecnologici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque sempre più difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso “oggettivo”, perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo”, perché il punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto fra loro.
Una rappresentazione della scienza che non assuma questa varietà di punti di vista in competizione, secondo me, impedisce a sua volta di individuare la novità e la ricchezza del compito che la filosofia si trova a dover affrontare.

 

Ezio Roletto è ancora più esplicito:

 

La concezione del metodo scientifico come procedura eterna e universale per produrre conoscenza partendo dai fatti risale ai positivisti, ossia ai primi decenni del 1800. Da allora la scienza ha fatto progressi enormi e gli epistemologi contemporanei hanno interpretato il modo di lavorare degli scienziati in modo meno schematico, dando una grande importanza al ruolo dei modelli scientifici e sottolineando l’aspetto creativo del ragionamento scientifico il quale dipende molto dall’immaginazione, dalla creatività, dalle opinioni personali e dalle preferenze individuali degli scienziati.

 

Che la concezione limitata di Scienza propugnata da Burioni e i suoi amici possa alla fine danneggiarla più di qualsiasi somaro?

Il Patto va in tribunale

Prendendo spunto dal manifesto programmatico del Patto trasversale per la Scienza, il virologo pesarese e Guido Silvestri hanno poi fondato un’associazione omonima; leggiamo dallo statuto:

Lo scopo dell’associazione è la promozione e la diffusione della scienza e del metodo scientifico sperimentale in Italia al fine di superare ogni ostacolo e/o azione che generi disinformazione su temi scientifici, il tutto nell’ottica del precipuo interesse della tutela della salute umana garantito costituzionalmente, contrastando altresì ogni azione e/o condotta da parte di chiunque che possa pregiudicarla sia in forma individuale che collettiva anche tramite illeciti civili, amministrativi o penali…
Per conseguire lo scopo precipuo l’associazione può utilizzare tutti gli strumenti di legge, compreso il ricorso all’Autorità giudiziaria e/o amministrativa con azioni individuali e collettive, nonché tramite la costituzione di parte civile in processi penali, ove risulti leso il bene primario dello scopo associativo della correttezza dell’esercizio della scienza e del metodo scientifico-sperimentale in Italia e della tutela della salute umana garantito costituzionalmente, anche rispetto ai destinatari della scienza e delle professioni tramite le quali si estrinseca.

 

Il gruppo è passato dalle parole ai fatti tramite un’azione legale con cui ha citato in giudizio il discusso ‘nanopatologo’ Stefano Montanari, relativamente ad alcune sue affermazioni sul Covid-19 pubblicate su YouTube, giustificandola con l’allarme sociale che potrebbero provocare.

Personalmente, ritengo sempre una pessima idea coinvolgere la magistratura in questioni scientifiche, perché il concetto giudico di ‘prova’ è molto diverso da quello di ‘evidenza empirica’, così come quello di ‘ragionevole dubbio’ ha poco da spartire con il ‘probabilismo’. Bizzarro, inoltre, che chi da sempre avversa l’uso strumentale delle sentenze dove si riconoscono danni da vaccinazione sostenendo – giustamente – che i giudici non possano sostituirsi agli scienziati, adesso invochi invece l’intervento dei tribunali per ovviare, in definitiva, alla sua mancanza di autorevolezza.

Viene proprio da dire che chi semina vento raccoglie tempesta. Infatti, come già accennato in precedenza, le strategie mediatiche servite al successo personale di Burioni hanno parallelamente rafforzato tante nemesi dello studioso del San Raffaele, le quali ottengono il favore di una parte del pubblico non per la bontà delle loro argomentazioni ma (penso soprattutto al caso di Montanari) per i modi di fare meno supponenti e più aperti al dialogo, cosicché la simpatia verso la persona finisce per riflettersi anche sulle sue teorie.

Insomma, Burioni chiede alla magistratura di raccogliere cocci che lui, più o meno inconsapevolmente, ha contribuito a creare. Ma il fatto più deprecabile è che, nell’esposto consegnato alle Procure di Modena e Ancora, i legali del Patto abbiano suggerito addirittura l’oscuramento dei canali YouTube (non solo dei singoli video incriminati) che hanno diffuso le dichiarazioni di Montanari: un inutile atteggiamento censorio da ministero orwelliano della verità, da condannare con tutte le forze.

La scienza deve essere democratica

Lo Stato non può intralciare lo spirito di ricerca. La ricerca deve essere libera. I suoi apporti sono l’espressione della verità, e ciò che è verità non può essere nocivo. Il dovere dello Stato è di sostenere la ricerca scientifica e di incoraggiarla in tutti i modi, anche quando i suoi risultati, agli occhi degli umani, non portano applicazioni pratiche. Soltanto alla generazione successiva tali risultati potrebbero produrre il loro effetto e avere allora delle conseguenze rivoluzionarie.

A parte i toni un po’ roboanti, in tanti approverebbero questa presa di posizione, sicuramente tutti i sostenitori del Patto; consenso che si rafforzerebbe riportando un’esternazione successiva della medesima persona:

A mio parere, la libertà non dev’essere limitata al solo campo delle scienze naturali. Essa deve estendersi anche al campo del pensiero, anzitutto alla filosofia.

Ma chi è costui? Forse un pensatore libertario alla Bertrand Russell? Incredibile a dirsi, ho appena citato niente meno che Adolf Hitler, dal libro Colloqui riservati di Adolf Hitler annotati da Martin Bormann.

Ovviamente, lungi da me sostenere che la libertà di ricerca sia in qualche modo un caposaldo nazista – del resto il Führer, tra milioni di deliri criminali, una paio di cose giuste nella vita può anche averle dette – intendo semmai sottolineare come essa, considerata separatamente da altri valori, possa tranquillamente non solo convivere con le peggiori forme di totalitarismo, ma persino essere incentivata. Contrariamente ai convincimenti dei sostenitori di Progresso e Sviluppo, la libera scienza non preserva dalle peggiori forme di barbarie, potrebbe anzi costituirne un elemento fondamentale.

Per evitare ciò, occorre che al mondo della ricerca si applichino tutti i contrappesi e i controlli a cui è soggetta qualsiasi istituzione in un regime democratico; che non significa affatto, come paventa Burioni, votare le leggi naturali per alzata di mano.

Si tratta invece di promuovere una grande opera di trasparenza, sottoponendo a controllo sociale i meccanismi di progressione di carriera, le procedure di validazione scientifica, i dispositivi di proprietà intellettuale che limitano l’accesso alla conoscenza; oltre a vigilare sui rapporti che l’Accademia intreccia con soggetti pubblici e privati, onde chiarire sul nascere possibili conflitti di interesse.

In quest’ottica, Burioni rappresenta un punto di vista estremamente reazionario e corporativo, convinto che l’autogoverno accademico, nella sua torre d’avorio isolata dalla società civile, possa autonomamente risolvere tutte le problematiche che l’affliggono, e che per riabilitare l’autorevolezza della Scienza sia sufficiente distinguere tra chi ha i titoli per parlarne e chi no.

Siamo quindi in presenza di uno studioso con i suoi indubbi meriti e le cui conoscenze possono sicuramente essere di pubblica utilità; ma, in ultima analisi, veicola concezioni perdenti e inadatte ai tempi che corrono.

(continua)

Pensiero critico, critica del pensiero/2 Il debunking

 Pubblicato su Decrescita Felice Social Network il 30 aprile 2020

Debunking e fact-cheking

Smentire falsità e demistificare sono per principio azioni lodevoli e meritorie, quindi il debunking, se condotto con serietà e correttezza, può solo recare onore a chi lo pratica, specialmente nell’epoca in cui la bulimia di informazione da Web rende difficile districarsi tra fonti attendibili e pozzi senza fondo di fake-news. In un certo senso, tutti quanti dovremmo ispirarci almeno idealmente ai fact-checker, il contrario equivarrebbe a considerare se stessi dei creduloni superficiali che si lasciano abbindolare come allocchi dal primo cialtrone di turno.

Premesso ciò, quali risultati concreti sono stati ottenuti da chi ha fatto del debunking addirittura un’attività fine a se stessa, con lo scopo dichiarato di migliorare la qualità dell’informazione in Rete e ridurre drasticamente le falsità dilaganti? In questo caso, il giudizio si fa meno lusinghiero. Talvolta, persino alcuni debunker lasciano trasparire un profondo senso di delusione, come se i loro sforzi fossero destinati a rimanere vani.

Secondo alcuni ricercatori, combattere le bufale paradossalmente le rafforza perché, in un’epoca in cui la pubblicità negativa è considerata preferibile a nessuna forma di propaganda, favorisce la viralità dei contenuti che diffondono. C’è poi chi mette in guardia dal ‘ritorno di fiamma’ sulla mente dei lettori qualora si enfatizzi troppo la notizia falsa invece dei fatti che la smentiscono, rinforzando quindi involontariamente menzogna e mistificazione.

 

Fonte: Manuale della demistificazione di Skeptical Science

 

Per quanto argomentazioni fondate, sono abbastanza diffidente verso le spiegazioni-alibi che dirottano insuccessi e fallimenti solo su cause esterne al comportamento delle persone direttamente coinvolte. Vediamo allora di approfondire la questione.

Al pari di tanti altri fenomeni della Rete, il debunking di norma scatena reazioni contraddittorie, consenso fino all’idolatria oppure avversione tendente all’odio viscerale. Se i facili entusiasmi sono comprensibili, come si spiega tanto astio verso un’attività che, se ben condotta, dovrebbe tributare solo elogi?

I fan del debunking hanno spesso la risposta pronta: è in corso uno scontro tra sostenitori di verità, cultura e scienza contro quelli di menzogna, oscurantismo e ignoranza; tanti fact-checker hanno cavalcato l’onda del ‘noi vs loro’ (quando non l’hanno fattivamente promossa) anche perché funzionale al contesto dei social network, dove la radicalizzazione è una risorsa eccezionale per conquistare visibilità.

Divulgare deliberatamente notizie false è un atto criminoso che non ha nulla da spartire con la libertà di espressione, quindi è giusto ogni biasimo. Ma che dire del pubblico che fa da cassa di risonanza e che, in teoria, il debunking dovrebbe informare ed educare? Merita altrettanta ignominia?

Certo, chi crede nelle fake-news è probabilmente ‘analfabeta funzionale’ e di sicuro ‘vittima del bias di conferma’, per usare espressioni care ai debunker. Ma è possibile che l’attuale ‘popolo delle bufale’ sia cognitivamente tanto diverso dalle masse che, solo qualche decennio fa, si sottoponevano alle vaccinazioni senza obiettare, esultavano alla costruzione di autostrade e grandi opere (con buona pace di Pasolini, avrebbero fatto estinguere volentieri tutte le lucciole per mille Montedison), non opponevano resistenza alla costruzione di centrali nucleari, riponevano fiducia nella stampa e pendevano sostanzialmente dalle labbra degli esperti?

Non abbiamo elementi certi per escluderlo a priori; di sicuro, però, sappiamo che nel frattempo sono intervenuti cambiamenti epocali che hanno causato strascichi enormi, determinati principalmente da quarant’anni di incontrastata egemonia neoliberista. L’elevazione del profitto a criterio-cardine della società ha inevitabilmente corrotto tutti gli ambiti; piccoli e grandi scandali hanno sconvolto politica, economia, giornalismo, mondo accademico; l’influenza lobbystica ha raggiunto livelli esorbitanti; insomma, è saltato il clima di fiducia su cui si deve reggere il patto sociale. Un sondaggio realizzato nel 2018 dall’Università dell’Insubria su di un campione rappresentativo del popolo italiano lo evidenzia in modo drammatico:

 

Fonte: Università degli Studi dell’Insubria

 

Un quadro a tinte eccessivamente fosche? Forse, anche perché la sensazione di fiducia tradita è molto dolorosa e non favorisce l’obiettività. Ma c’è modo e modo per provare a riportare più equilibrio e serenità di giudizio.

Qui arriviamo al secondo problema fondamentale: raramente mi imbatto in debunking scorretti sul piano formale, troppo spesso però vedo all’opera una palese tendenziosità celata dietro la maschera della constatazione neutrale e oggettiva. Mi spiego meglio.

Se sono uno storico della Shoah e il mio sforzo documentario consiste esclusivamente nel ridimensionare il numero delle vittime dei campi di sterminio, è innegabile il mio intento di sminuire la gravità di questo crimine immane. Analogamente, se affronto argomenti come emigrazione, energia atomica, 5G, vaccini, manipolazione genetica, sperimentazione animale e molti altri limitandomi a confutare palesi bufale senza rapportarmi con le obiezioni più serie e argomentate – facendo intendere implicitamente che non esistono – sto chiaramente cercando di sdoganare l’idea per cui qualsiasi voce critica riguardante multiculturalismo, sicurezza e fattibilità del nucleare, elettrosmog, lobbysmo di Big Pharma, transgenesi, prassi della ricerca scientifica, ecc. sia da considerarsi frutto di pregiudizio e ignoranza.

Le ‘sbufalate’ hanno quasi sempre la funzione di rassicurare su timori condivisi da ampie fette di popolazione, raramente vengono confutate notizie eccessivamente ottimistiche, a meno che non riguardino pseudo-invenzioni del tipo “ecco il motore ad acqua che l’industria petrolifera sta tentando in tutti i modi di nascondere al mondo” (veicola comunque indirettamente il messaggio che i petrolieri o altri potentati non ostacolerebbero mai l’avvento di una tecnologia che potesse danneggiare i loro interessi!).

I fact-checker, spesso accusati ingiustamente di essere asserviti a formazioni politiche o aziende, a me sembrano più che altro assurgere troppo spesso ad avvocati difensori del Business As Usual. Intendiamoci: esiste l’onestà intellettuale ma non una visione neutrale dei fenomeni (Heisenberg docet), lungi da me chiedere a chicchessia di imbarcarsi in improbabili operazioni di ‘par condicio’ su ogni tematica trattata o peggio ancora di assumere atteggiamenti cerchiobottisti.

Se però, come i debunker sostengono ripetutamente, il loro scopo non è difendere ideologie né promuovere sterili muro contro muro, bensì favorire un clima del dibattito più razionale e meno basato sul sensazionalismo emotivo, allora un consiglio mi sento di darlo: alla pars destruens del fact-checking si deve accompagnare necessariamente uno sforzo empatico e costruttivo verso il pubblico che si vorrebbe educare, non limitato a un semplice atteggiamento paternalista.

Occorre invece partire dal presupposto che, dietro al sostegno acritico alle bufale, magari non si celino solo ignoranza, bias e fanatismo, ma anche preoccupazioni serie e fondate, per quanto argomentate nel peggior modo possibile. Vediamo un esempio concreto di come si potrebbe mettere in pratica quanto propongo.

Chi diffonde leggende metropolitane su Big Pharma difficilmente cambierà idea solo perché gli vengono smentite, per di più se avverte un tono di derisione verso i suoi timori; quasi sicuramente, anzi, si trincererà ancora di più nei suoi convincimenti. Potrebbe invece smuoversi dai pregiudizi cercando con lui un punto d’incontro per inquadrare nell’ottica corretta l’intera questione del lobbysmo dell’industria farmaceutica, assumendo quindi che, di per sé, trattasi di problema reale e non di paranoia nevrotica.

Quindi, all’immancabile e puntuale debunking potrebbe accompagnarsi un contributo utile in tal senso, come un articolo de Il Fatto Quotidiano di qualche anno fa, di cui riporto uno stralcio significativo:

Big Pharma sta uscendo allo scoperto per quello che è: una lobby planetaria, una casta di intoccabili che fa i miliardi sulla pelle dei cittadini, accumula scandali uno dietro l’altro, inventa le malattie prima di sfornare la pillolina miracolosa e ovviamente è impermeabile alla crisi. Glaxo Smith Kline, gigante britannico dei farmaci, si è comprata i medici di mezzo mondo. Solo ad aprile è stata accusata di corruzione in Libano, Giordania, Iraq e Polonia, dove il manager regionale dell’azienda e 11 dottori sono sotto indagine per un presunto giro di mazzette in cambio della prescrizione del farmaco anti-asmatico Seretide. Nel luglio 2013 è stata incastrata in Cina, dove ha sganciato 320 milioni di sterline per ingraziarsi la classe medica con regali di lusso e prostitute.
Il botto negli Stati Uniti, anno 2012: 3 miliardi di dollari di multe per aver pompato le vendite di antidepressivi per indicazioni non autorizzate. La Roche spaccia il Tamiflu come il farmaco del secolo contro l’aviaria nel 2006 e tre anni dopo l’influenza suina (il virus A/H1N1) ma i ricercatori della Cochraine Collaboration, entrano in possesso dei risultati delle ricerche chiusi negli archivi, dimostrano che è un finto antidoto per una finta pandemia. Poi il cartello con l’altro colosso svizzero, Novartis, per favorire la diffusione del Lucentis, cioè il farmaco più costoso per la cura della maculopatia (1400 euro) contro l’analogo low cost Avastin (15 euro), con maxi-multa dell’Antitrust italiana da 180 milioni di euro. Solo per citare i casi più freschi. La magistratura ha messo la marcia. I media hanno rotto il tabù.

“Visto? Big Pharma è criminale e truffa la gente!”, tuoneranno gli ‘analfabeti funzionali’. Ed è vero, dal testo emerge come alcune delle maggiori corporation del settore non si facciano scrupoli a violare la legge e altri comportamenti riprovevoli. Si evince però in modo altrettanto incontrovertibile che, malgrado la loro smisurata potenza, il famigerato ‘Sistema’ un’azione di vigilanza e contenimento la svolge, per giunta su fenomeni che, rispetto a quelli paventati dalle teorie del complotto (avvelenare la popolazione mondiale con i vaccini e roba simile), sono bazzecole. Pertanto, Big Pharma gode di ampi margini di manovra e gli organismi di garanzia probabilmente chiudono gli occhi in diverse circostanze, ma non è la burattinaia del mondo che qualcuno ama dipingere.

Quindi, se al blastare il falso si accompagnasse un impegno concreto per capire fin dove le paure sono ragionevoli e dove invece degenerano in isterismi senza senso, il debunking potrebbe aumentare notevolmente la sua capacità di persuasione; secondo me, questo sforzo servirebbe anche a tanti fact-checker per imparare qualcosa prima ignorato o ampiamente sottovalutato.

(continua)